martedì 19 luglio 2011

I 21 giganti eolici intorno al pozzo di Avetrana

«Allu Mosca» dice Michele Misseri nella confessione che porterà al ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi in contrada Mosca. «Località Mosca» si legge nella determina della Regione Puglia che sottopone a valutazione d'impatto ambientale l'impianto eolico «Avetrana Nord». Ventuno pali eolici assiepati al confine delle province di Taranto, Brindisi e Lecce, nel territorio di quel piccolo centro salentino divenuto da quasi un anno la capitale delle morbosità da domenica pomeriggio. Ventuno giganti eolici, ciascuno da tre megawatt di potenza, cento metri di altezza, cinquanta metri di raggio: ventuno giganti d'acciaio da 150 metri ad accerchiare il pozzo nel quale fu ritrovato il corpo saponificato - così lo definì l'autopsia - della ragazzina di Avetrana.

Perché questi dettagli da grand guignol? Perché nella determina coscienziosamente stilata dal dirigente dell'ufficio regionale per la valutazione d'impatto ambientale del progetto proposto dalla Monte srl (già Eolica Avetrana, già Enertec srl) sono esaminati tutti i vincoli previsti dalle norme. Quello che manca – e non poteva essere diversamente – è quella sorta di vincolo impalpabile che si chiama rispetto per un profilo del territorio che va oltre il paesaggio e lo skyline e entra in quella dimensione simbolica che ha a che fare con la morte.

Nella determina 107 del 2 maggio scorso, infatti, è valutato tutto: la rimozione di due ettari di vigneto e dieci alberi di ulivo, che verranno espiantati senza alcuna compensazione ambientale; la presenza di altri impianti eolici nei comuni vicini di Erchie, Salice Salentino e San Pancrazio che rischiano di creare un «effetto selva»; l'effetto sul paesaggio, visto che i ventuno giganti d'acciaio avranno «un impatto visivo elevato» (parole che la stessa azienda usa nel suo progetto) per chi viaggia in auto o in treno tra Lecce e Taranto; la presenza di muretti a secco e di acque a rischio di contaminazione salina; soprattutto il potenziale disturbo per le rotte dei rapaci che nidificano nella zona e perfino il tasso di sicurezza per le costruzioni circostanti in caso di rottura dell'aerogeneratore.

Il coscienzioso dirigente dell'ufficio regionale, però, non poteva (e ovviamente non doveva) valutare un altro impatto, tanto più impalpabile perché irrazionale. Ma non per questo immotivato. Nel campo delle energie alternative molte aziende non si sono poste come problema il rispetto del paesaggio e dello skyline, ma questa azienda non si è posto come problema trasformare in un luogo di business il teatro del più sacro degli eventi umani, la morte.

Perché, non so a voi, ma a me ha fatto correre un brivido lungo la schiena immaginare ventuno giganti d'acciaio stretti in cerchio intorno al pozzo dove per giorni e giorni è rimasto immerso nell'acqua il corpo di Sarah Scazzi, quasi un'ultima violenza alla ragazzina di Avetrana, un'estrema intrusione in una vita tanto breve quanto morbosamente spiata al microscopio della domenica pomeriggio.

venerdì 8 luglio 2011

Masseria Ghermi: la memoria e la vergogna

In una terra dalla memoria corta, la storia di Masseria Ghermi merita di essere ricordata, anche solo per vergognarcene un po'. Perchè su quei tre spiazzali di cemento è successo di tutto. Ci ha fatto i suoi affari la peggiore sacra corona unita, quella che tentò la strada delle stragi per destabilizzare i processi. Ci ha sudato sangue lo stato, con le forze dell'ordine e la magistratura che hanno imbastito indagini e concluso processi per tagliare le unghie alla criminalità organizzata. Ci è naufragata la politica, che non è riuscita a gestire la pancia xenofoba di certo elettorato, con uno schema rovesciato rispetto alle impostazioni classiche: centrosinistra "intollerante" versus centrodestra "accogliente". Alla fine della fiera chi ci ha perso è Lecce che - caso più unico che raro - ha restituito intatto a Roma un finanziamento da un milione di euro. Ora ci riprova, con un finanziamento che vale il doppio: speriamo che esercitare la memoria (e magari la vergogna) aiuti a non perdere anche questo.

Bisogna inoltrarsi nelle campagne vicino Giorgilorio, tra Surbo e la provinciale Lecce-Torre Chianca per trovare la masseria Ghermi, che di tale ha solo il nome: si tratta in realtà di ruderi risalenti agli anni '80 che si affacciano su tre enormi spiazzali di cemento. Qui faceva i suoi affari, collegati all’edilizia e al movimento terra, Angelo Vincenti, il boss della Scu di Surbo che viene ritenuto il mandante della bomba al rapido Lecce-Zurigo. Era il 5 gennaio 1992 quando scoppia un potente ordigno sul cavalcaferrovia di Surbo, dal quale poco prima era passato il treno, a bordo del quale viaggiavano 800 viaggiatori: un'imprecisione di pochi minuti che evitò un massacro. L'idea, a quanto se ne sa, era quella di condizionare i maxiprocessi che proprio in quei mesi si aprivano e che avrebbero portato alla decapitazione della Scu leccese.

L'anno seguente, nel gennaio del '93, Vincenti viene arrestato con l'accusa di tentata strage e associazione mafiosa e i suoi beni, dopo una lunga trafila giudiziaria, vengono confiscati; tra di essi c'è la masseria Ghermi, che l’Agenzia del Demanio consegna il 22 dicembre 1998 al Comune di Lecce. Passeranno otto anni prima che venga elaborato un progetto: area di sosta per immigrati di nazionalità Rom e Sinti, per sostituire il già allora fatiscente campo di Panareo.

Il finanziamento, un milione di euro, arriva dalla misura 2.5 del Pon sicurezza del Ministero dell’Interno, riservato al riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia. Ma contro il progetto approvato nell’estate del 2006 dalla giunta di Lecce, allora guidata da Adriana Poli Bortone, si schiera subito l'amministrazione comunale di Surbo governata dal centrosinistra di Antonio Cirio. Il 21 settembre 2006 il consiglio comunale surbino «manifesta il proprio palese dissenso nei confronti del progetto riguardante l'insediamento del predetto campo nomadi». Inoltre, assistita dall'avvocato Valeria Pellegrino, l'amministrazione impugna la delibera della giunta Poli con un ricorso al Tar di Lecce.

I giudici amministrativi risponderanno il 20 dicembre, con parole nettissime: il ricorso è bocciato - si legge nella sentenza - perché
«un’amministrazione comunale non può farsi portatore di istanze di tipo egoistico e, quindi, particolaristiche, dovendo invece agire a tutela di interessi pubblici generali».
A questo punto a Surbo scattano le manifestazioni: il «campo nomadi» comunque non s’ha da fare. «La situazione era pesantissima - racconta Francesca Mariano, ex assessore all'immigrazione – avevamo paura di vederci comparire davanti soggetti armati di pistola. Il prefetto di allora fece davvero l'ufficiale di governo, prese in mano la situazione e evitò una guerra civile». In quell'occasione fu Gianfranco Casilli a convocare un vertice in prefettura il 29 gennaio 2007 e a convincere la Poli a cercare nuove soluzioni per masseria Ghermi. «Ho detto sì ad una condizione - furono le parole della lady di ferro, per addolcire la sconfitta - di trovare soluzioni diverse che ci consentano di non perdere i finanziamenti».

Non fu così: per costruire alcune delle abitazioni fisse del campo sosta Panareo, in effetti, si trovarono fonti di finanziamento diverse da quelle del Pon sicurezza. Ma che fine fece il milione di euro stanziato per ristrutturare l'immobile confiscato al clan Vincenti? «Ci è stato revocato» risponde Maurizio Guido, dirigente comunale al patrimonio, il settore che dopo molti palleggiamenti si è visto scaricare la patata bollente di masseria Ghermi. «D’altronde era inevitabile: i tecnici del Ministero hanno verificato che il progetto di campo Rom, per cui era stato erogato il finanziamento, non era mai stato attuato e quindi si sono ripresi i fondi».

Così, tra scontri politici e sentenze giudiziarie, progetti messi a punto con anni di ritardo e poi cancellati da vertici in prefettura, i tre grandi spiazzali di cemento strappati al boss Vincenti trovano una nuova destinazione il 25 maggio del 2009, con una delibera della giunta di Paolo Perrone: un centro alloggio per senzatetto, con un finanziamento richiesto di due milioni e centomila euro. Accordato nei giorni scorsi, come tutti i mezzi di informazione locale hanno comunicato (qui l'articolo di 20 centesimi).
Il gioco dell'oca del riutilizzo di Masseria Ghermi è ripartito dal via, stavolta con un finanziamento doppio: speriamo che esercitare la memoria (e magari la vergogna) aiuti a non perdere anche questo.

Photocredits: Brandi2010-TeleRama, La Repubblica, Comune di Surbo, Biancoenerored.wordpress, atsl.it

martedì 5 luglio 2011

Lo spettro di Rosarno, le angurie di Nardò

C'è un cocktail esplosivo al gusto di anguria, che la tramontana sta shakerando nelle campagne salentine. Si scrive Nardò, si legge Rosarno. Come la località calabrese nella quale scoppiò la rivolta degli schiavi delle arance. Esplosero nel 2010 gli scontri tra i 1500 immigrati impiegati in agricoltura, stufi dello sfruttamento e dell'intolleranza di cui erano oggetto, e i cittadini che viceversa erano stufi di quelle presenze estranee che cambiavano la faccia del paese. Scontri durissimi, ai quali probabilmente non era estranea la 'ndrina locale dei Bellocco. Niente del genere è mai accaduto a Nardò, la capitale del regno delle angurie nella quale fino a qualche anno fa le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati non erano diverse da quelle di Rosarno: le ore massacranti sotto il sole a raccogliere frutti pesanti anche più di dieci chili, il sonno sfiancati dalla fatica in casolari abbandonati senza acqua né luce o direttamente sulla terra, sotto gli ulivi. Tutto per 30 euro a giornata, dopo la lauta cresta dei caporali che dal magro compenso in nero detraevano i denari per il trasporto, il cibo, perfino per il sorso d'acqua da bere sui campi arsi.

Una situazione pronta ad esplodere, fotografata nella ricerca che l'Ires ha presentato sabato scorso a Roma. L'Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil ha misurato il «rischio Rosarno» in Italia, con risultati inquietanti: la provincia di Lecce è nel gruppo delle peggiori 15 province d'Italia, con un rischio di conflitto sociale «molto alto». "Gli immigrati che lavorano in agricoltura - si legge - sono soprattutto uomini giovani che ricoprono attualmente un ruolo fondamentale nel lavoro stagionale per la sopravvivenza di tante imprese agricole. In queste zone, ci troviamo di fronte ad un sistema, quello agricolo, che utilizza il lavoro migrante perché risulta meno costoso e più vulnerabile. Lavoratori facilmente sfruttabili e ricattabili per la mancanza di permesso di soggiorno o per la necessita di rinnovarlo". La ricerca dell'Ires, più che come un campanello d'allarme, suona come una sirena d'emergenza alle orecchie di chi deve intervenire. Ma ha un difetto: si basa su dati tutti veri ma tutti vecchi, quando lo sfruttamento delle aziende e il sonno delle istituzioni generavano il mostro dello schiavismo.

Molto è cambiato però nelle campagne di Nardò, da quegli anni documentati dall'inchiesta che rappresenta la prima puntata dell'Indiano, il programma d'inchiesta di TeleRama. L'accoglienza, soprattutto: ha aperto i battenti Masseria Boncuri e rappresenta uno dei rari esempi in cui istituzioni diverse (il Comune di Nardò, che ne è proprietario; la Regione Puglia, che ne ha finanziato la ristrutturazione; la Provincia di Lecce, che ha acquistato le tende) hanno disinnescato senza litigare un problema esplosivo, grazie anche alla passione e al pragmatismo della cooperativa Finisterrae che gestisce il campo. Lo stato ci ha messo del suo: senza il fiato sul collo della prefettura di Lecce forse quelle istituzioni avrebbero ceduto alla tentazione sempre in agguato delle chiacchiere e delle polemiche. E anche le aziende hanno sentito quel fiato sul collo, materializzatosi per tutta la stagione nelle continue visite dell'ispettorato del lavoro: le angurie quest'anno sembravano un po' meno nere, il sommerso sembrava cominciare ad emergere.

Poi, è arrivata la tramontana. Che c'entra? C'entra, eccome. Perché senza caldo l'anguria non si vende. Il frutto dell'estate si mangia ghiacciato a fette da un euro l'una nei bar milanesi o nei ristoranti baresi per sfuggire all'afa che non ti lascia respiro. Niente afa, niente anguria: semplice. O poca, pochissima, molto meno di quanto i 1500 ettari di Nardò ne producano ogni giorno. Così i frutti dell'estate marciscono tra la terra rossa, le aziende che cominciavano a mettersi in regola arrancano, le ore di lavoro sotto il sole sono due o tre al giorno. E tra i quasi mille immigrati accorsi nel reame dell'anguria comincia a serpeggiare la rabbia e la frustrazione, fomentate dai caporali, che ancora circolano a Nardò. Rabbia e frustrazione che fanno rima con quelle degli imprenditori che da quelle fette succose spremevano non meno di 25 milioni di euro a stagione. Non sono fiori di campo, quegli imprenditori: c'è qualcuno che ha anche precedenti penali e qualcuno che sembra vantare rapporti amichevoli con la Scu locale. E se la rabbia degli immigrati a braccia conserte si mescola con la frustrazione degli imprenditori dalle mani pesanti, gli sforzi di questi anni rischiano di essere stati spesi invano. E il cocktail al gusto d'anguria rischia di rivelarsi esplosivo, come non lo è stato mai.

Photocredits: Fusco2008-TeleRama, Ires