giovedì 27 ottobre 2011

Il senatore Costa e le lezioni di dialetto all'onorevole Di Pietro

Se non fosse il confronto ufficiale tra due rappresentanti del popolo sovrano nella più alta delle istituzioni democratiche, il dialogo tra Rosario Giorgio Costa e Antonio di Pietro meriterebbe di entrare in una rappresentazione della commedia dell'arte. Perché in quello scambio di battute svolto nella commissione antimafia c'è tutto il succo del duello sotterraneo tra due maschere arcitaliane: il brusco contadino un po' Masaniello versus il paterno curato di campagna.

In Italia tutti conoscono Antonio Di Pietro e la sua oratoria popolana che sprezza il politichese e strizza l'occhio al linguaggio comune: da Mani Pulite in poi il vero emblema di quel complesso sentimento diffuso che sbrigativamente classifichiamo come «antipolitica» è lui, più ancora del tribuno delle piazze (e del web) Beppe Grillo.

Non tutti conoscono invece Rosario Giorgio Costa, il senatore di Matino che vanta il primato di parlamentare più longevo di Puglia: dal 1994 ad oggi ininterrottamente seduto sugli scranni di Palazzo Madama. Non è un caso, ma il prodotto di un metodo, quello della Prima Repubblica. Nel «Divo», il film di Paolo Sorrentino, c'è una battuta fulminante che lo spiega bene: “De Gasperi e Andreotti andavano in chiesa insieme. De Gasperi parlava con Dio, Andreotti col prete”. Così è Costa: nel mezzo della settimana a presidiare aula e commissioni parlamentari, gli altri giorni a pattugliare il territorio, stringere mani e «fare ricevimento», cioè ricevere postulanti e clientes che gli sottopongono casi pietosi, trasferimenti necessari, concorsi ambiti. Una pacca sulla spalla, una battuta in dialetto, una rassicurazione (se non una segnalazione) per tutti.

E che succede quando il contadino un po' Masaniello e il curato di campagna si incontrano in parlamento? È successo poco meno di un anno fa, nella seduta della commissione bicamerale antimafia chiamata ad esaminare la «Relazione sui costi economici della criminalità organizzata nelle Regioni dell'Italia meridionale», stesa proprio da Costa in rappresentanza del quarto comitato della commissione. Una relazione che Antonio Di Pietro stronca così:



«Dissento da questa relazione. Credo sia corretto dirlo, con tutto il rispetto, la stima e l'amicizia che ho verso il senatore Costa. Dissento perché la relazione appare come un mero compitino, un richiamo al documento di altri. Se una Commissione parlamentare d'inchiesta, che ha i poteri dell'autorità giudiziaria, sintetizza in un suo documento ciò che hanno detto, ad esempio, la Banca d'Italia o la Confcommercio, si fa prima e meglio a leggere direttamente le relazioni di Banca d'Italia e Confcommercio. A prescindere poi dalla sintesi di relazioni altrui, questa del senatore Costa scopre l'acqua calda. Mi perdoni, senatore Costa, è un mio modo di parlare, ma non voglio assolutamente mettere in discussione la sua professionalità. Leggendo però la sintesi della sintesi, questa relazione, alla fine dice che la Commissione parlamentare bicamerale di inchiesta sul fenomeno della mafia ha scoperto che “il peso della criminalità organizzata grava su ampie parti del Sud e che essa infiltra le pubbliche amministrazioni”. Per la miseria!»
Dalla trascrizione stenografica (pubblicata sul sito della commissione) si può solo immaginare il tono da tribuno della plebe che tanto aiuta «Tonino» a bucare lo schermo e ne fa un ambito ospite nei talk-show politici. Chiunque, di fronte ad una bacchettata così violenta impartita di fronte al plenum della commissione parlamentare antimafia, si sarebbe riscaldato, avrebbe acceso polemiche, lanciato strali, sparato repliche. Costa no:



«Ringrazio i colleghi per l'amabilità che è stata riservata al nostro lavoro: dico nostro, perché evidentemente non è soltanto mio, ma di sei parlamentari che hanno lavorato per circa venti sessioni e che non si sono limitati soltanto a rendere “compitini” di sorta, poiché è nostra abitudine essere seri ed esaurienti ogni qualvolta ci applichiamo per esercitare un lavoro, in particolare per questo che tanto anima la nostre coscienze e i nostri cuori»
Un esordio in perfetto stile curiale che però ha solo la funzione di preparare all'epilogo nella commedia dell'arte che le due maschere stanno rappresentando nella commissione parlamentare: a Di Pietro, Costa risponde sul suo stesso terreno e al contadino un po' masaniello, il curato di campagna dà lezioni di dialetto.



«Il IV Comitato, espressione di questa Commissione, merita la dignità, il rispetto ed anche il tono di voce adeguato, perché si possono dire - come diceva un mio maestro - le stesse cose, ma in modo diverso (si può dire in dialetto pugliese "ci boi?", oppure "ci cumanni?", perché ognuno di noi ha un suo stile e un modo di esprimersi). Non abbiamo copiato, bensì collaborato con la Banca d'Italia. Con queste precisazioni e ritenendo di dare tutta la comprensione, come lui l'ha riservata a me, all'onorevole Di Pietro (per quanto facendo il ministro non sia riuscito a modificare quell'ANAS che tanti dispiaceri ha procurato e procura, né a rimuovere altri fattori), dico al collega di stare attento: noi il compitino lo abbiamo fatto, ma lei è andato proprio fuori tema»
Potete pensare tutto quello che volete di Costa e di Di Pietro, del Pdl e dell'Idv, dell'attuale quadro politico e della funzione del parlamento. Ma una risposta come questa dimostra con certezza una sola cosa: che la Dc è come la bicicletta, una volta imparata non la si scorda più.

Photocredits: biscoteca.wordpress.com, loscirocco.it, reggioitaliainchieste.blogspot.com

mercoledì 10 agosto 2011

A Casarano è morto il '900

È morto un secolo in quella villa costruita da mesciu Ucciu, il calzolaio diventato cavaliere, sulla collina della Campana a pochi metri da quelle dei grandi proprietari terrieri di Casarano. Era un simbolo del potere che si era spostato, dal feudo alla fabbrica, come suona il titolo dato al suo libro da un avversario che lo combattè ma lo rispettò come Mario Toma.

Piero Montinari, l'attuale presidente di Confindustria Puglia, mi ha raccontato della prima volta che andò alla Filanto (che allora contava oltre tremila operai) e ci dovette arrivare attraverso una strada sterrata, in mezzo al deserto. Se non si capisce la distanza dello Stato da questa esperienza, non si comprende neanche l’impresa titanica del calzolaio diventato industriale senza rinunciare al suo dialetto.

E non si capisce neanche l’impermeabilità della grande fabbrica ai sindacati, che non veniva solo dal padrone, ma anche dalle maestranze: furono gli operai a stendere quel manifesto dal titolo "lasciateci lavorare" quando negli anni '70 sindacalisti e dirigenti politici cercavano di entrare in fabbrica. Fallirono: i sindacati ci sono entrati vent'anni dopo, con la crisi, per certificare il declino di quell'esperienza e di un modello da "cinesi d'Europa" messo in ginocchio dall'ingresso dei cinesi veri nella concorrenza globale.

Ma tutto questo non è che teoria economica e non spiega perché in un sabato sera soffocante, tre ore dopo la morte di mesciu Ucciu, a guardare verso la villa illuminata sulla collina della Campana ho contato qualcosa come duecento casaranesi. Non può essere (più) sottomissione, dato che oggi nella fabbrica ci lavorano forse 300 persone: magari è la consapevolezza che se n'era andato colui che aveva tirato fuori dall'economia agricola (che ora mitizziamo, nel ricordo, ma che allora significava povertà e fame) Casarano e un pezzo di sud Salento.

C’è tanto da rimproverare a Antonio Filograna: non dimenticherò mai quella volta in cui andai a trovare il mio compagno di classe delle medie e trovai lui e tutta la sua famiglia che cucivano tomaie sul tavolo della cucina, le sue mani da bambino che si muovevano velocissime su quei pezzi da consegnare all’assemblaggio. C’è stato nero e c’è stato grigio, in quella grande esperienza industriale che è nata se non "fuori" dallo stato, praticamente "accanto" ad esso: ci sono state doppie buste paga, una per l’ispettorato e una per l’operaio; c’è stato un rapporto strumentale con la politica, tanto che la Filanto esprimeva sindaci e deputati e ricambiava in voti e consenso; c’è stata, infine, una concezione paternalista della fabbrica che in parte resiste ancora oggi.

Ma sarebbe cieco negare che i mutui sono stati pagati con gli stipendi che uscivano dalla sua fabbrica, che c'era un'alternativa alla sottomissione politica per avere il posto in ospedale o alla schiavitù dei campi, che quello era un pezzo di economia vera nata senza l'assistenzialismo dello stato (anche se poi ne ha largamente beneficiato). Che quando la Romania prima e l’India poi hanno messo in crisi il modello da “cinesi d’Europa” della Filanto, il calzolaio diventato cavaliere non ha chiuso la fabbrica e finanziarizzato le sue attività (come pure qualche manager molto vicino gli consigliava) per rifugiarsi nel suo albergo vista mare, ma viceversa ha impegnato l’albergo a garanzia della fabbrica. Che l’epopea della Filanto, la grande industria di scarpe nata in un luogo dove non c’erano né materie prime, né esperienza imprenditoriale né sapienza operaia rappresentava il paradosso del calabrone: troppo pesante rispetto all'ampiezza delle sue ali per poter volare, ma lui non lo sa e vola lo stesso. Che la storia di mesciu Ucciu è quanto di più vicino all’american dream che questa terra innaffiata di contraddizioni sia riuscita a partorire e che la forza dell’imprenditore stava anche in quel rapporto viscerale dell’uomo con la sua comunità, in quel carisma bisbetico che strapazzava indifferentemente deputati e operai, in quel volo del calabrone dal feudo alla fabbrica declinato alla fine del secolo scorso e terminato nel letto della villa sulla Campana.

Sì, sabato scorso è morto un protagonista - nel bene e nel male - di quel concetto novecentesco che chiamiamo "sviluppo". E con la sua morte, anche a Casarano, il '900 è finito.

photocredits: tuttocasarano.it



martedì 19 luglio 2011

I 21 giganti eolici intorno al pozzo di Avetrana

«Allu Mosca» dice Michele Misseri nella confessione che porterà al ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi in contrada Mosca. «Località Mosca» si legge nella determina della Regione Puglia che sottopone a valutazione d'impatto ambientale l'impianto eolico «Avetrana Nord». Ventuno pali eolici assiepati al confine delle province di Taranto, Brindisi e Lecce, nel territorio di quel piccolo centro salentino divenuto da quasi un anno la capitale delle morbosità da domenica pomeriggio. Ventuno giganti eolici, ciascuno da tre megawatt di potenza, cento metri di altezza, cinquanta metri di raggio: ventuno giganti d'acciaio da 150 metri ad accerchiare il pozzo nel quale fu ritrovato il corpo saponificato - così lo definì l'autopsia - della ragazzina di Avetrana.

Perché questi dettagli da grand guignol? Perché nella determina coscienziosamente stilata dal dirigente dell'ufficio regionale per la valutazione d'impatto ambientale del progetto proposto dalla Monte srl (già Eolica Avetrana, già Enertec srl) sono esaminati tutti i vincoli previsti dalle norme. Quello che manca – e non poteva essere diversamente – è quella sorta di vincolo impalpabile che si chiama rispetto per un profilo del territorio che va oltre il paesaggio e lo skyline e entra in quella dimensione simbolica che ha a che fare con la morte.

Nella determina 107 del 2 maggio scorso, infatti, è valutato tutto: la rimozione di due ettari di vigneto e dieci alberi di ulivo, che verranno espiantati senza alcuna compensazione ambientale; la presenza di altri impianti eolici nei comuni vicini di Erchie, Salice Salentino e San Pancrazio che rischiano di creare un «effetto selva»; l'effetto sul paesaggio, visto che i ventuno giganti d'acciaio avranno «un impatto visivo elevato» (parole che la stessa azienda usa nel suo progetto) per chi viaggia in auto o in treno tra Lecce e Taranto; la presenza di muretti a secco e di acque a rischio di contaminazione salina; soprattutto il potenziale disturbo per le rotte dei rapaci che nidificano nella zona e perfino il tasso di sicurezza per le costruzioni circostanti in caso di rottura dell'aerogeneratore.

Il coscienzioso dirigente dell'ufficio regionale, però, non poteva (e ovviamente non doveva) valutare un altro impatto, tanto più impalpabile perché irrazionale. Ma non per questo immotivato. Nel campo delle energie alternative molte aziende non si sono poste come problema il rispetto del paesaggio e dello skyline, ma questa azienda non si è posto come problema trasformare in un luogo di business il teatro del più sacro degli eventi umani, la morte.

Perché, non so a voi, ma a me ha fatto correre un brivido lungo la schiena immaginare ventuno giganti d'acciaio stretti in cerchio intorno al pozzo dove per giorni e giorni è rimasto immerso nell'acqua il corpo di Sarah Scazzi, quasi un'ultima violenza alla ragazzina di Avetrana, un'estrema intrusione in una vita tanto breve quanto morbosamente spiata al microscopio della domenica pomeriggio.

venerdì 8 luglio 2011

Masseria Ghermi: la memoria e la vergogna

In una terra dalla memoria corta, la storia di Masseria Ghermi merita di essere ricordata, anche solo per vergognarcene un po'. Perchè su quei tre spiazzali di cemento è successo di tutto. Ci ha fatto i suoi affari la peggiore sacra corona unita, quella che tentò la strada delle stragi per destabilizzare i processi. Ci ha sudato sangue lo stato, con le forze dell'ordine e la magistratura che hanno imbastito indagini e concluso processi per tagliare le unghie alla criminalità organizzata. Ci è naufragata la politica, che non è riuscita a gestire la pancia xenofoba di certo elettorato, con uno schema rovesciato rispetto alle impostazioni classiche: centrosinistra "intollerante" versus centrodestra "accogliente". Alla fine della fiera chi ci ha perso è Lecce che - caso più unico che raro - ha restituito intatto a Roma un finanziamento da un milione di euro. Ora ci riprova, con un finanziamento che vale il doppio: speriamo che esercitare la memoria (e magari la vergogna) aiuti a non perdere anche questo.

Bisogna inoltrarsi nelle campagne vicino Giorgilorio, tra Surbo e la provinciale Lecce-Torre Chianca per trovare la masseria Ghermi, che di tale ha solo il nome: si tratta in realtà di ruderi risalenti agli anni '80 che si affacciano su tre enormi spiazzali di cemento. Qui faceva i suoi affari, collegati all’edilizia e al movimento terra, Angelo Vincenti, il boss della Scu di Surbo che viene ritenuto il mandante della bomba al rapido Lecce-Zurigo. Era il 5 gennaio 1992 quando scoppia un potente ordigno sul cavalcaferrovia di Surbo, dal quale poco prima era passato il treno, a bordo del quale viaggiavano 800 viaggiatori: un'imprecisione di pochi minuti che evitò un massacro. L'idea, a quanto se ne sa, era quella di condizionare i maxiprocessi che proprio in quei mesi si aprivano e che avrebbero portato alla decapitazione della Scu leccese.

L'anno seguente, nel gennaio del '93, Vincenti viene arrestato con l'accusa di tentata strage e associazione mafiosa e i suoi beni, dopo una lunga trafila giudiziaria, vengono confiscati; tra di essi c'è la masseria Ghermi, che l’Agenzia del Demanio consegna il 22 dicembre 1998 al Comune di Lecce. Passeranno otto anni prima che venga elaborato un progetto: area di sosta per immigrati di nazionalità Rom e Sinti, per sostituire il già allora fatiscente campo di Panareo.

Il finanziamento, un milione di euro, arriva dalla misura 2.5 del Pon sicurezza del Ministero dell’Interno, riservato al riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia. Ma contro il progetto approvato nell’estate del 2006 dalla giunta di Lecce, allora guidata da Adriana Poli Bortone, si schiera subito l'amministrazione comunale di Surbo governata dal centrosinistra di Antonio Cirio. Il 21 settembre 2006 il consiglio comunale surbino «manifesta il proprio palese dissenso nei confronti del progetto riguardante l'insediamento del predetto campo nomadi». Inoltre, assistita dall'avvocato Valeria Pellegrino, l'amministrazione impugna la delibera della giunta Poli con un ricorso al Tar di Lecce.

I giudici amministrativi risponderanno il 20 dicembre, con parole nettissime: il ricorso è bocciato - si legge nella sentenza - perché
«un’amministrazione comunale non può farsi portatore di istanze di tipo egoistico e, quindi, particolaristiche, dovendo invece agire a tutela di interessi pubblici generali».
A questo punto a Surbo scattano le manifestazioni: il «campo nomadi» comunque non s’ha da fare. «La situazione era pesantissima - racconta Francesca Mariano, ex assessore all'immigrazione – avevamo paura di vederci comparire davanti soggetti armati di pistola. Il prefetto di allora fece davvero l'ufficiale di governo, prese in mano la situazione e evitò una guerra civile». In quell'occasione fu Gianfranco Casilli a convocare un vertice in prefettura il 29 gennaio 2007 e a convincere la Poli a cercare nuove soluzioni per masseria Ghermi. «Ho detto sì ad una condizione - furono le parole della lady di ferro, per addolcire la sconfitta - di trovare soluzioni diverse che ci consentano di non perdere i finanziamenti».

Non fu così: per costruire alcune delle abitazioni fisse del campo sosta Panareo, in effetti, si trovarono fonti di finanziamento diverse da quelle del Pon sicurezza. Ma che fine fece il milione di euro stanziato per ristrutturare l'immobile confiscato al clan Vincenti? «Ci è stato revocato» risponde Maurizio Guido, dirigente comunale al patrimonio, il settore che dopo molti palleggiamenti si è visto scaricare la patata bollente di masseria Ghermi. «D’altronde era inevitabile: i tecnici del Ministero hanno verificato che il progetto di campo Rom, per cui era stato erogato il finanziamento, non era mai stato attuato e quindi si sono ripresi i fondi».

Così, tra scontri politici e sentenze giudiziarie, progetti messi a punto con anni di ritardo e poi cancellati da vertici in prefettura, i tre grandi spiazzali di cemento strappati al boss Vincenti trovano una nuova destinazione il 25 maggio del 2009, con una delibera della giunta di Paolo Perrone: un centro alloggio per senzatetto, con un finanziamento richiesto di due milioni e centomila euro. Accordato nei giorni scorsi, come tutti i mezzi di informazione locale hanno comunicato (qui l'articolo di 20 centesimi).
Il gioco dell'oca del riutilizzo di Masseria Ghermi è ripartito dal via, stavolta con un finanziamento doppio: speriamo che esercitare la memoria (e magari la vergogna) aiuti a non perdere anche questo.

Photocredits: Brandi2010-TeleRama, La Repubblica, Comune di Surbo, Biancoenerored.wordpress, atsl.it

martedì 5 luglio 2011

Lo spettro di Rosarno, le angurie di Nardò

C'è un cocktail esplosivo al gusto di anguria, che la tramontana sta shakerando nelle campagne salentine. Si scrive Nardò, si legge Rosarno. Come la località calabrese nella quale scoppiò la rivolta degli schiavi delle arance. Esplosero nel 2010 gli scontri tra i 1500 immigrati impiegati in agricoltura, stufi dello sfruttamento e dell'intolleranza di cui erano oggetto, e i cittadini che viceversa erano stufi di quelle presenze estranee che cambiavano la faccia del paese. Scontri durissimi, ai quali probabilmente non era estranea la 'ndrina locale dei Bellocco. Niente del genere è mai accaduto a Nardò, la capitale del regno delle angurie nella quale fino a qualche anno fa le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati non erano diverse da quelle di Rosarno: le ore massacranti sotto il sole a raccogliere frutti pesanti anche più di dieci chili, il sonno sfiancati dalla fatica in casolari abbandonati senza acqua né luce o direttamente sulla terra, sotto gli ulivi. Tutto per 30 euro a giornata, dopo la lauta cresta dei caporali che dal magro compenso in nero detraevano i denari per il trasporto, il cibo, perfino per il sorso d'acqua da bere sui campi arsi.

Una situazione pronta ad esplodere, fotografata nella ricerca che l'Ires ha presentato sabato scorso a Roma. L'Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil ha misurato il «rischio Rosarno» in Italia, con risultati inquietanti: la provincia di Lecce è nel gruppo delle peggiori 15 province d'Italia, con un rischio di conflitto sociale «molto alto». "Gli immigrati che lavorano in agricoltura - si legge - sono soprattutto uomini giovani che ricoprono attualmente un ruolo fondamentale nel lavoro stagionale per la sopravvivenza di tante imprese agricole. In queste zone, ci troviamo di fronte ad un sistema, quello agricolo, che utilizza il lavoro migrante perché risulta meno costoso e più vulnerabile. Lavoratori facilmente sfruttabili e ricattabili per la mancanza di permesso di soggiorno o per la necessita di rinnovarlo". La ricerca dell'Ires, più che come un campanello d'allarme, suona come una sirena d'emergenza alle orecchie di chi deve intervenire. Ma ha un difetto: si basa su dati tutti veri ma tutti vecchi, quando lo sfruttamento delle aziende e il sonno delle istituzioni generavano il mostro dello schiavismo.

Molto è cambiato però nelle campagne di Nardò, da quegli anni documentati dall'inchiesta che rappresenta la prima puntata dell'Indiano, il programma d'inchiesta di TeleRama. L'accoglienza, soprattutto: ha aperto i battenti Masseria Boncuri e rappresenta uno dei rari esempi in cui istituzioni diverse (il Comune di Nardò, che ne è proprietario; la Regione Puglia, che ne ha finanziato la ristrutturazione; la Provincia di Lecce, che ha acquistato le tende) hanno disinnescato senza litigare un problema esplosivo, grazie anche alla passione e al pragmatismo della cooperativa Finisterrae che gestisce il campo. Lo stato ci ha messo del suo: senza il fiato sul collo della prefettura di Lecce forse quelle istituzioni avrebbero ceduto alla tentazione sempre in agguato delle chiacchiere e delle polemiche. E anche le aziende hanno sentito quel fiato sul collo, materializzatosi per tutta la stagione nelle continue visite dell'ispettorato del lavoro: le angurie quest'anno sembravano un po' meno nere, il sommerso sembrava cominciare ad emergere.

Poi, è arrivata la tramontana. Che c'entra? C'entra, eccome. Perché senza caldo l'anguria non si vende. Il frutto dell'estate si mangia ghiacciato a fette da un euro l'una nei bar milanesi o nei ristoranti baresi per sfuggire all'afa che non ti lascia respiro. Niente afa, niente anguria: semplice. O poca, pochissima, molto meno di quanto i 1500 ettari di Nardò ne producano ogni giorno. Così i frutti dell'estate marciscono tra la terra rossa, le aziende che cominciavano a mettersi in regola arrancano, le ore di lavoro sotto il sole sono due o tre al giorno. E tra i quasi mille immigrati accorsi nel reame dell'anguria comincia a serpeggiare la rabbia e la frustrazione, fomentate dai caporali, che ancora circolano a Nardò. Rabbia e frustrazione che fanno rima con quelle degli imprenditori che da quelle fette succose spremevano non meno di 25 milioni di euro a stagione. Non sono fiori di campo, quegli imprenditori: c'è qualcuno che ha anche precedenti penali e qualcuno che sembra vantare rapporti amichevoli con la Scu locale. E se la rabbia degli immigrati a braccia conserte si mescola con la frustrazione degli imprenditori dalle mani pesanti, gli sforzi di questi anni rischiano di essere stati spesi invano. E il cocktail al gusto d'anguria rischia di rivelarsi esplosivo, come non lo è stato mai.

Photocredits: Fusco2008-TeleRama, Ires

lunedì 20 giugno 2011

Teppisti cromatici/5: Il lido spaccatorre

"e allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte 'e manifestazioni e ste fessarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. è importante la bellezza: da quella scende giù tutto il resto" (i 100 passi)

Personalissima rassegna della piccola bottega degli orrori stilistici salentini: colori incongrui, scelte infelici o semplici pugni nell'occhio che gonfiano di pinnacoli moreschi e sciabolate cromatiche il volto di una terra perfetta nella sua semplicità.

Un'immagine vale più di mille parole, si dice. E' struggente l'immagine del blu del mare dello jonio che fa rima con quel cielo che gronda calura che i salentini conoscono bene. Anzi no: sarebbe struggente, con la torre d'avvistamento calcinata dal sole che svetta tra il verdeamaro della macchia mediterranea sulla lingua di terra di Torre Lapillo. Skyline non più struggente, ma distrutto dal lido balneare che all'improvviso gli è cresciuto addosso, tirato su con squillanti travi bianche e insolenti teli arancio.


Intendiamoci: i lidi balneari sono l'ultimo dei problemi di Torre Lapillo e Porto Cesareo, due marine devastate dall'abusivismo che negli anni '70 e '80 ha ingoiato dune, divorato campagne, risucchiato pinete per far posto a una distesa di cubicoli di cemento. Seconde case tricamere e servizi o alveari turistici dove inzeppare i vacanzieri, come lo scheletro dell'albergo costruito a 20 metri dal mare sequestrato dalla Finanza nel 2009 e restituito ai proprietari dal Tar l'anno dopo.


No, non è il lido spaccatorre segnalato da Gianfranco Budano il problema di quel grumo di abusivismo e arroganza che si è mangiato una delle coste più belle del Salento. Ma forse non concedere quella concessione balneare e lasciare quegli scogli sospesi tra il blu del mare e la rima del cielo a chi è capace di avventurarcisi, avrebbe conservato un'ultima immagine struggente in un paesaggio troppo devastato.

Teppisti cromatici da segnalare? danilo976@libero.it o "Danilo Lupo" su fb



sabato 11 giugno 2011

Legittime provocazioni

Ieri ho fatto un esperimento. Ho scritto sul mio stato di facebook una provocazione e poi una cosa in cui - viceversa - credo profondamente. La provocazione era questa:
tentato dal non votare al referendum sul legittimo impedimento...
La cosa in cui credo profondamente, invece, l'ho scritta quando mi è stato chiesto il perchè, ed era questa:
perchè mi sono stancato della politica ossessionata dalla giustizia... e vorrei segnalare che nucleare e acqua sono questioni molto più importanti di cui si parla solo negli spazi liberi lasciati da avvocati e pm per riprendere fiato
Apriti cielo: alcuni dei miei amici virtuali più bravi e preparati sono insorti. Un bravo giornalista, un bravo professore, un bravo magistrato, un bravo ambientalista, un bravo osservatore, un bravo giurista hanno articolato il perchè, a loro avviso, stessi sbagliando. Tra commenti e risposte ne è uscito un dibattito così interessante che mi pare un peccato lasciarlo lì a vegetare su uno status privato. E allora eccolo qui:

Il bravo giornalista, Emilio Mola, ha scritto:
ragà è la giustizia che va al primo posto. E' la (in)giustizia il cancro di questo paese. Se la giustizia funzionasse avremmo meno mafia (che tra fatturato e danni all'imprenditoria si fuma ogni anno centinaia di miliardi di euro al sud), meno corruzione (altri 120miliardi), meno evasione (altri centinaia di miliardi) e così via. Tutti soldi che resterebbero nelle nostre tasche e in quelle dello Stato. Quindi meno tasse, meno debito, e così via all'infinito.
E quando gli ho chiesto se è di questa giustizia che parla la politica o il referendum, la sua risposta è stata questa:
certo che sì. Fino a che avremo politici criminali (casellario alla mano) interessati loro per primi a sfasciare la macchina della giustizia per evitarsi la galera, resterà tutto così com'è. Il legittimo impedimento è l'ennesima mossa della politica in tal senso. Quindi è da qui che bisogna partire. Dobbiamo smetterla con l'idea che in Italia diventare un politico significa diventare un semidio
A lui la mia risposta è stata questa:
purtroppo del funzionamento vero della giustizia in italia non mi sembra che freghi granchè a nessuno. spiego cosa intendo per funzionamento vero.
primo: la criminalizzazione della marginalità sociale, che ha farcito fino a farle scoppiare le nostre carceri di disgraziati (immigrati e tossici, per lo più) che sono semplicemente le persone per le quali la società non ha trovato alternative a priori alla criminalità comune nè percorsi di reinserimento a posteriori nel contesto legale (nel nostro interesse, prima ancora che nel loro). si preferisce dare una risposta semplice e immediata alla domanda sociale di sicurezza (e se poi questa domanda sia reale o indotta è un altro discorso): creare discariche nel quale conferire la monnezza sociale. anche in questo caso, io sono per il riciclo.
secondo: il rapporto tra magistratura e polizia giudiziaria. sembra un dettaglio, ma è un nesso essenziale della legalità e anche della democrazia. la riforma della giustizia presentata da questo governo slega i due aspetti e la conseguenza è, a mio avviso, molto più pericolosa di cento legittimi impedimenti. oggi i giudici sono i garanti del rispetto delle regole nelle operazioni delle forze dell'ordine, domani questo controllo preventivo andrebbe a rompersi. qualcuno si ricorda ancora quel buco nello stato di diritto - al di fuori di qualsiasi controllo preventivo di legalità - che prese i nomi di diaz e bolzaneto a genova? ecco, appunto.
terzo: il costo delle liti temerarie e la velocità dei processi. anche qui, sembra un dettaglio ma non lo è. oggi chiunque si senta danneggiato da una decisione dello stato (ma anche da un articolo di giornale, ad esempio) fa causa. tanto non costa niente e anche se il ricorso è strampalato e evidentemente infondato, avrà ottenuto quanto meno di rallentare l'esecuzione della decisione (o magari di intimidire l'autore dell'articolo). se invece ci fosse una multa salata che sanziona la lite temeraria, che dica che aver fatto ricorso è un tranello bello e buono alla giustizia effettiva, le opere pubbliche non sarebbero decise dai tribunali (vedi 275) o non languirebbero nelle aule di udienza (vedi fse) e non ci sarebbe l'eventualità di un'intimidazione a mezzo querela (o ancor di più, a mezzo risarcimento danni) verso articoli scomodi.
e ne avrei di quarti e di quinti e di dodicesimi e di cinquantasettesimi, ma per ora basta così.
Il bravo giudice, Pierpaolo Montinaro, ha scritto:
mi permetto di intervenire su questa tua poco convincente affermazione (forse più avventata che altro) x farti osservare che di acqua e nucleare si sia parlato di più che del legittimo impedimento e che l' idea complessiva dei referendum è la riaffermazione del concetto di legalità. Ora so che non sarai mai d' accordo con me x il tuo spirito di contraddizione e di non accettazione del dissenso. Perciò ti anticipo che non interverrò più.
E la risposta, in questo caso, suonava così:
hai ragione quando definisci avventata la mia affermazione. infatti era - lo ripeto - una provocazione. però di legittimo impedimento (almeno a livello di slogan) avevamo tutti sentito parlare già nei mesi scorsi, se non altro per le polemiche furiose e le accuse incrociate che erano volate come al solito nel dibattito politico e in quello mediatico che ne viene trainato. io invece non ho visto nei tg la notizia della legge che obbliga a privatizzare la gestione dell'acqua. di nucleare si è parlato un po' di più, è vero, ma sempre infinitamente meno di qualunque lodo, leggina, normetta che riguarda i procedimenti giudiziari di berlusconi.
Il bravo professore, Stefano Cristante, ha scritto:
Ripristinare l'eccezionalità del legittimo impedimento rappresenta una restituzione simbolica di grande eguaglianza, condizione della quale abbiamo estremamente bisogno tutti. Stiamo abituandoci a un mondo in cui non crescono le diversità, ma le disparità più inverosimili. Occorre ristabilire un equilibrio tra i cittadini per rifondare una comunità consapevole. Soprattutto in Italia
Il bravo osservatore, Cesà Saracino, invece ha scritto:
Andare a votare contro il legittimo impedimendo a mio parere è lanciare un segnale forte nei confronti dei privilegi della politica...In realtà se pur un quesito che sicuramente non risolverà granchè, dato che non sarà impedendo al premier di cercare una scorciatoia per non comparire in udienza che si risolve il problema, purtroppo.. è comunque un picccolo passo! sarei il primo, se l'accesso alla carriera politica fosse vincolato al rispetto di requisiti ben precisi, ad ipotizzare addirittura un istituto vicino all'immunità parlamentare...tale da allontanare ogni sospetto dalla fantastica invenzione della cosiddetta magistratura politicizzata. Ma verrà mai impedito a condannati e indagati di candidarsi? La vedo veramente difficile....Dunque procediamo in questo senso ed andiamo a votare.
Erano due punti di vista tutto sommato simili, ecco perchè la risposta è stata ad entrambi:
in realtà la legge su cui siamo chiamati ad esprimerci domani non lede il principio di eguaglianza tra i cittadini. e spiego perchè. quando venne scritta e approvata, nel marzo 2010, effettivamente la legge sul legittimo impedimento stabiliva che berlusconi o i suoi ministri potevano usufruire del rinvio obbligatorio delle udienze che li riguardavano in caso di (autocertificati) impegni istituzionali. in pratica l'imputato decideva quando (e - di fatto - se) celebrare il processo e il giudice ubbidiva. detto così, ricorda quella canzone di de andrè in cui un magistrato si rivolge all'imputato con queste parole: "oggi un giudice come me, lo chiede al potere se può giudicare. tu sei il potere. vuoi essere giudicato? vuoi essere assolto o condannato?". detto così va bene non solo il referendum, ma anche la rivolta civile. il problema è che così non è. nel gennaio scorso la corte costituzionale, interpellata dalla procura di milano, ha riscritto le parti giudicate in contrasto con la costituzione e ha - di fatto - rovesciato
il senso della legge. cioè con la legge su cui dobbiamo esprimerci domani il presidente del consiglio imputato può chiedere il rinvio dell'udienza accampando un legittimo impedimento, ma poi sta al giudice ordinario (cioè alla procura di milano) decidere se quell'impedimento è legittimo o meno e se il rinvio avrà luogo o no. quindi, con la riscrittura da parte della corte costituzionale, il giudice decide e l'imputato obbedisce, nè più nè meno di come succede già oggi: in base al codice penale qualunque imputato può chiedere il rinvio di un'udienza fornendo una motivazione che poi starà al giudice valutare. quindi in questo non c'è disparità tra i politici e i cittadini. allora perchè il referendum? perchè le firme sono state raccolte prima che la corte costituzionale si esprimesse, rovesciando di fatto la legge, e la corte di cassazione ha comunque dichiarato ammissibile il quesito che mira a cancellare una norma che - con queste premesse - è inutile, ma non dannosa. poi l'italia dei valori, che ha raccolto le firme, dice chiaramente (basta vedere il sito) che questo è un referendum su berlusconi. e questa è una legittima interpretazione politica, ci mancherebbe! ma è esattamente l'avvitamento su sè stesso del dibattito pubblico che mi ha profondamente stancato.
Infine il bravo ambientalista, Gianni Pède, ha scritto:
... fatte na doccia !
E quando il bravo osservatore ha aggiunto un altro parere, cioè questo:
...il discorso sulla politica ossessionata dalla giustizia che toglie spazio ai veri problemi del nostro paese, fila dritto....Ma quanto è intrecciata la matassa in questione? Sono i media e la politica che parlano troppo di giustizialismo... togliendo spazio al resto o quest'ultimi ne parlano perchè c'è un premier a tanti altri che usano la politica per pararsi il sederino? Dunque...è la giustizia politicizzata che toglie spazio ad altro o la classe politica che ha trovato una scorciatoia non per affrontare i problemi seri del paese ma per altro? Non pensate che di questa giustizia politicizzata se ne faccia un uso anche favorevole? Un Governo fermo da tre anni, e non certo per causa dei giudici, ha interesse a far parlare i media del suo operato o di un male insormontabile che paralizza le istituzioni? Non facciamoci prendere in giro ragazzi!!
La risposta del bravo ambientalista è stata questa:
... non fila mank'ar'k... è una classica giaculatoria dei media berlusconiani ... strano sfugga ai lupi cose de sto tipo ... cmq ... tant auguri !
E la mia replica quest'altra:
i media berlusconiani non dicono che la politica è ossessionata dalla giustizia, bensì che la giustizia è ossessionata dalla politica e più precisamente i giudici di milano sono ossessionati da berlusconi. ripeto per l'ennesima volta: la mia era una provocazione. ma rimango convinto che aver spostato tutto il peso del dibattito pubblico sulle bilance della giustizia abbia fatto molto comodo proprio a berlusconi, che di questo tema ha fatto il suo cavallo di battaglia e ci ha corso sopra per quasi vent'anni, prima di ritrovarsi azzoppato a milano.
In capo a tutto avevo posto una premessa, che articolava meglio quell'osservazione in cui credo profondamente articolata all'inizio; e la premessa era questa:
premetto: la mia era una provocazione. che però segnala un fatto che a me sembra oggettivo: la politica è lo strumento che la società ha inventato per decidere come amministrare i beni comuni e per giustifica...re in nome di quali idee e quali visioni del mondo si compiono quelle scelte. per cui il primo compito della politica è occuparsi di cose, cose concrete e assumere delle decisioni sulla gestione dei beni comuni. in italia, mi pare, di queste cose non si parla più: il dibattito pubblico è ipertroficamente avvitato in una discussione tutta politicistica sulla figura di berlusconi e sui suoi procedimenti giudiziari: il centrodestra per difenderlo, il centrosinistra per attaccarlo. questo è il dibattito pubblico che ci propinano, mentre di cose concrete non si parla più; e ci propinano tutti, da minzolini a santoro, da posizioni opposte. tranne ovviamente le solite lodevoli eccezioni (report e presa diretta, fondamentalmente) alle quali sembra che si stia aggiungendo (e subito sottraendo) current tv: in quegli spazi si parla ancora di gestione concreta dei beni comuni (l'acqua, la terra, l'economia, eccetera eccetera eccetera). ma sono nicchie che sfuggono a stento al dibattito politico dominante (e al dibattito mediatico a rimorchio) che è tutto centrato sulla classe politica, più che sulle decisioni collettive da prendere nella gestione dei beni comuni. da qui quella che - ribadisco - era una semplice provocazione che però segnala una stanchezza rispetto a un livello pubblico del dibattito che sembra la favola del fagiolo magico: una pianta che si sviluppa così ipertroficamente da raggiungere il cielo.
Ma l'osservazione a mio avviso più ficcante l'ha fatta il bravo giurista, Marco Nicolì: lui si troverà a votare a Washington, essendo impegnato a lavorare nella World Bank. E la sua osservazione, disarmante nella sua semplicità e nettezza, è stata questa.
una volta un caro amico disse "non si vota per dare segnali, ma con la prospettiva che quello per cui si vota venga approvato"... d'accordo che l'acqua e il nucleare sono piu' importanti, ma finche' abbiamo criminali al governo cosa credi sara' privilegiato, la tua acqua o i loro interessi?
Qui non ho risposta: al di là delle provocazioni, mi sembra un ottimo motivo per andare a votare.