martedì 5 luglio 2011

Lo spettro di Rosarno, le angurie di Nardò

C'è un cocktail esplosivo al gusto di anguria, che la tramontana sta shakerando nelle campagne salentine. Si scrive Nardò, si legge Rosarno. Come la località calabrese nella quale scoppiò la rivolta degli schiavi delle arance. Esplosero nel 2010 gli scontri tra i 1500 immigrati impiegati in agricoltura, stufi dello sfruttamento e dell'intolleranza di cui erano oggetto, e i cittadini che viceversa erano stufi di quelle presenze estranee che cambiavano la faccia del paese. Scontri durissimi, ai quali probabilmente non era estranea la 'ndrina locale dei Bellocco. Niente del genere è mai accaduto a Nardò, la capitale del regno delle angurie nella quale fino a qualche anno fa le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati non erano diverse da quelle di Rosarno: le ore massacranti sotto il sole a raccogliere frutti pesanti anche più di dieci chili, il sonno sfiancati dalla fatica in casolari abbandonati senza acqua né luce o direttamente sulla terra, sotto gli ulivi. Tutto per 30 euro a giornata, dopo la lauta cresta dei caporali che dal magro compenso in nero detraevano i denari per il trasporto, il cibo, perfino per il sorso d'acqua da bere sui campi arsi.

Una situazione pronta ad esplodere, fotografata nella ricerca che l'Ires ha presentato sabato scorso a Roma. L'Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil ha misurato il «rischio Rosarno» in Italia, con risultati inquietanti: la provincia di Lecce è nel gruppo delle peggiori 15 province d'Italia, con un rischio di conflitto sociale «molto alto». "Gli immigrati che lavorano in agricoltura - si legge - sono soprattutto uomini giovani che ricoprono attualmente un ruolo fondamentale nel lavoro stagionale per la sopravvivenza di tante imprese agricole. In queste zone, ci troviamo di fronte ad un sistema, quello agricolo, che utilizza il lavoro migrante perché risulta meno costoso e più vulnerabile. Lavoratori facilmente sfruttabili e ricattabili per la mancanza di permesso di soggiorno o per la necessita di rinnovarlo". La ricerca dell'Ires, più che come un campanello d'allarme, suona come una sirena d'emergenza alle orecchie di chi deve intervenire. Ma ha un difetto: si basa su dati tutti veri ma tutti vecchi, quando lo sfruttamento delle aziende e il sonno delle istituzioni generavano il mostro dello schiavismo.

Molto è cambiato però nelle campagne di Nardò, da quegli anni documentati dall'inchiesta che rappresenta la prima puntata dell'Indiano, il programma d'inchiesta di TeleRama. L'accoglienza, soprattutto: ha aperto i battenti Masseria Boncuri e rappresenta uno dei rari esempi in cui istituzioni diverse (il Comune di Nardò, che ne è proprietario; la Regione Puglia, che ne ha finanziato la ristrutturazione; la Provincia di Lecce, che ha acquistato le tende) hanno disinnescato senza litigare un problema esplosivo, grazie anche alla passione e al pragmatismo della cooperativa Finisterrae che gestisce il campo. Lo stato ci ha messo del suo: senza il fiato sul collo della prefettura di Lecce forse quelle istituzioni avrebbero ceduto alla tentazione sempre in agguato delle chiacchiere e delle polemiche. E anche le aziende hanno sentito quel fiato sul collo, materializzatosi per tutta la stagione nelle continue visite dell'ispettorato del lavoro: le angurie quest'anno sembravano un po' meno nere, il sommerso sembrava cominciare ad emergere.

Poi, è arrivata la tramontana. Che c'entra? C'entra, eccome. Perché senza caldo l'anguria non si vende. Il frutto dell'estate si mangia ghiacciato a fette da un euro l'una nei bar milanesi o nei ristoranti baresi per sfuggire all'afa che non ti lascia respiro. Niente afa, niente anguria: semplice. O poca, pochissima, molto meno di quanto i 1500 ettari di Nardò ne producano ogni giorno. Così i frutti dell'estate marciscono tra la terra rossa, le aziende che cominciavano a mettersi in regola arrancano, le ore di lavoro sotto il sole sono due o tre al giorno. E tra i quasi mille immigrati accorsi nel reame dell'anguria comincia a serpeggiare la rabbia e la frustrazione, fomentate dai caporali, che ancora circolano a Nardò. Rabbia e frustrazione che fanno rima con quelle degli imprenditori che da quelle fette succose spremevano non meno di 25 milioni di euro a stagione. Non sono fiori di campo, quegli imprenditori: c'è qualcuno che ha anche precedenti penali e qualcuno che sembra vantare rapporti amichevoli con la Scu locale. E se la rabbia degli immigrati a braccia conserte si mescola con la frustrazione degli imprenditori dalle mani pesanti, gli sforzi di questi anni rischiano di essere stati spesi invano. E il cocktail al gusto d'anguria rischia di rivelarsi esplosivo, come non lo è stato mai.

Photocredits: Fusco2008-TeleRama, Ires