giovedì 27 ottobre 2011

Il senatore Costa e le lezioni di dialetto all'onorevole Di Pietro

Se non fosse il confronto ufficiale tra due rappresentanti del popolo sovrano nella più alta delle istituzioni democratiche, il dialogo tra Rosario Giorgio Costa e Antonio di Pietro meriterebbe di entrare in una rappresentazione della commedia dell'arte. Perché in quello scambio di battute svolto nella commissione antimafia c'è tutto il succo del duello sotterraneo tra due maschere arcitaliane: il brusco contadino un po' Masaniello versus il paterno curato di campagna.

In Italia tutti conoscono Antonio Di Pietro e la sua oratoria popolana che sprezza il politichese e strizza l'occhio al linguaggio comune: da Mani Pulite in poi il vero emblema di quel complesso sentimento diffuso che sbrigativamente classifichiamo come «antipolitica» è lui, più ancora del tribuno delle piazze (e del web) Beppe Grillo.

Non tutti conoscono invece Rosario Giorgio Costa, il senatore di Matino che vanta il primato di parlamentare più longevo di Puglia: dal 1994 ad oggi ininterrottamente seduto sugli scranni di Palazzo Madama. Non è un caso, ma il prodotto di un metodo, quello della Prima Repubblica. Nel «Divo», il film di Paolo Sorrentino, c'è una battuta fulminante che lo spiega bene: “De Gasperi e Andreotti andavano in chiesa insieme. De Gasperi parlava con Dio, Andreotti col prete”. Così è Costa: nel mezzo della settimana a presidiare aula e commissioni parlamentari, gli altri giorni a pattugliare il territorio, stringere mani e «fare ricevimento», cioè ricevere postulanti e clientes che gli sottopongono casi pietosi, trasferimenti necessari, concorsi ambiti. Una pacca sulla spalla, una battuta in dialetto, una rassicurazione (se non una segnalazione) per tutti.

E che succede quando il contadino un po' Masaniello e il curato di campagna si incontrano in parlamento? È successo poco meno di un anno fa, nella seduta della commissione bicamerale antimafia chiamata ad esaminare la «Relazione sui costi economici della criminalità organizzata nelle Regioni dell'Italia meridionale», stesa proprio da Costa in rappresentanza del quarto comitato della commissione. Una relazione che Antonio Di Pietro stronca così:



«Dissento da questa relazione. Credo sia corretto dirlo, con tutto il rispetto, la stima e l'amicizia che ho verso il senatore Costa. Dissento perché la relazione appare come un mero compitino, un richiamo al documento di altri. Se una Commissione parlamentare d'inchiesta, che ha i poteri dell'autorità giudiziaria, sintetizza in un suo documento ciò che hanno detto, ad esempio, la Banca d'Italia o la Confcommercio, si fa prima e meglio a leggere direttamente le relazioni di Banca d'Italia e Confcommercio. A prescindere poi dalla sintesi di relazioni altrui, questa del senatore Costa scopre l'acqua calda. Mi perdoni, senatore Costa, è un mio modo di parlare, ma non voglio assolutamente mettere in discussione la sua professionalità. Leggendo però la sintesi della sintesi, questa relazione, alla fine dice che la Commissione parlamentare bicamerale di inchiesta sul fenomeno della mafia ha scoperto che “il peso della criminalità organizzata grava su ampie parti del Sud e che essa infiltra le pubbliche amministrazioni”. Per la miseria!»
Dalla trascrizione stenografica (pubblicata sul sito della commissione) si può solo immaginare il tono da tribuno della plebe che tanto aiuta «Tonino» a bucare lo schermo e ne fa un ambito ospite nei talk-show politici. Chiunque, di fronte ad una bacchettata così violenta impartita di fronte al plenum della commissione parlamentare antimafia, si sarebbe riscaldato, avrebbe acceso polemiche, lanciato strali, sparato repliche. Costa no:



«Ringrazio i colleghi per l'amabilità che è stata riservata al nostro lavoro: dico nostro, perché evidentemente non è soltanto mio, ma di sei parlamentari che hanno lavorato per circa venti sessioni e che non si sono limitati soltanto a rendere “compitini” di sorta, poiché è nostra abitudine essere seri ed esaurienti ogni qualvolta ci applichiamo per esercitare un lavoro, in particolare per questo che tanto anima la nostre coscienze e i nostri cuori»
Un esordio in perfetto stile curiale che però ha solo la funzione di preparare all'epilogo nella commedia dell'arte che le due maschere stanno rappresentando nella commissione parlamentare: a Di Pietro, Costa risponde sul suo stesso terreno e al contadino un po' masaniello, il curato di campagna dà lezioni di dialetto.



«Il IV Comitato, espressione di questa Commissione, merita la dignità, il rispetto ed anche il tono di voce adeguato, perché si possono dire - come diceva un mio maestro - le stesse cose, ma in modo diverso (si può dire in dialetto pugliese "ci boi?", oppure "ci cumanni?", perché ognuno di noi ha un suo stile e un modo di esprimersi). Non abbiamo copiato, bensì collaborato con la Banca d'Italia. Con queste precisazioni e ritenendo di dare tutta la comprensione, come lui l'ha riservata a me, all'onorevole Di Pietro (per quanto facendo il ministro non sia riuscito a modificare quell'ANAS che tanti dispiaceri ha procurato e procura, né a rimuovere altri fattori), dico al collega di stare attento: noi il compitino lo abbiamo fatto, ma lei è andato proprio fuori tema»
Potete pensare tutto quello che volete di Costa e di Di Pietro, del Pdl e dell'Idv, dell'attuale quadro politico e della funzione del parlamento. Ma una risposta come questa dimostra con certezza una sola cosa: che la Dc è come la bicicletta, una volta imparata non la si scorda più.

Photocredits: biscoteca.wordpress.com, loscirocco.it, reggioitaliainchieste.blogspot.com

mercoledì 10 agosto 2011

A Casarano è morto il '900

È morto un secolo in quella villa costruita da mesciu Ucciu, il calzolaio diventato cavaliere, sulla collina della Campana a pochi metri da quelle dei grandi proprietari terrieri di Casarano. Era un simbolo del potere che si era spostato, dal feudo alla fabbrica, come suona il titolo dato al suo libro da un avversario che lo combattè ma lo rispettò come Mario Toma.

Piero Montinari, l'attuale presidente di Confindustria Puglia, mi ha raccontato della prima volta che andò alla Filanto (che allora contava oltre tremila operai) e ci dovette arrivare attraverso una strada sterrata, in mezzo al deserto. Se non si capisce la distanza dello Stato da questa esperienza, non si comprende neanche l’impresa titanica del calzolaio diventato industriale senza rinunciare al suo dialetto.

E non si capisce neanche l’impermeabilità della grande fabbrica ai sindacati, che non veniva solo dal padrone, ma anche dalle maestranze: furono gli operai a stendere quel manifesto dal titolo "lasciateci lavorare" quando negli anni '70 sindacalisti e dirigenti politici cercavano di entrare in fabbrica. Fallirono: i sindacati ci sono entrati vent'anni dopo, con la crisi, per certificare il declino di quell'esperienza e di un modello da "cinesi d'Europa" messo in ginocchio dall'ingresso dei cinesi veri nella concorrenza globale.

Ma tutto questo non è che teoria economica e non spiega perché in un sabato sera soffocante, tre ore dopo la morte di mesciu Ucciu, a guardare verso la villa illuminata sulla collina della Campana ho contato qualcosa come duecento casaranesi. Non può essere (più) sottomissione, dato che oggi nella fabbrica ci lavorano forse 300 persone: magari è la consapevolezza che se n'era andato colui che aveva tirato fuori dall'economia agricola (che ora mitizziamo, nel ricordo, ma che allora significava povertà e fame) Casarano e un pezzo di sud Salento.

C’è tanto da rimproverare a Antonio Filograna: non dimenticherò mai quella volta in cui andai a trovare il mio compagno di classe delle medie e trovai lui e tutta la sua famiglia che cucivano tomaie sul tavolo della cucina, le sue mani da bambino che si muovevano velocissime su quei pezzi da consegnare all’assemblaggio. C’è stato nero e c’è stato grigio, in quella grande esperienza industriale che è nata se non "fuori" dallo stato, praticamente "accanto" ad esso: ci sono state doppie buste paga, una per l’ispettorato e una per l’operaio; c’è stato un rapporto strumentale con la politica, tanto che la Filanto esprimeva sindaci e deputati e ricambiava in voti e consenso; c’è stata, infine, una concezione paternalista della fabbrica che in parte resiste ancora oggi.

Ma sarebbe cieco negare che i mutui sono stati pagati con gli stipendi che uscivano dalla sua fabbrica, che c'era un'alternativa alla sottomissione politica per avere il posto in ospedale o alla schiavitù dei campi, che quello era un pezzo di economia vera nata senza l'assistenzialismo dello stato (anche se poi ne ha largamente beneficiato). Che quando la Romania prima e l’India poi hanno messo in crisi il modello da “cinesi d’Europa” della Filanto, il calzolaio diventato cavaliere non ha chiuso la fabbrica e finanziarizzato le sue attività (come pure qualche manager molto vicino gli consigliava) per rifugiarsi nel suo albergo vista mare, ma viceversa ha impegnato l’albergo a garanzia della fabbrica. Che l’epopea della Filanto, la grande industria di scarpe nata in un luogo dove non c’erano né materie prime, né esperienza imprenditoriale né sapienza operaia rappresentava il paradosso del calabrone: troppo pesante rispetto all'ampiezza delle sue ali per poter volare, ma lui non lo sa e vola lo stesso. Che la storia di mesciu Ucciu è quanto di più vicino all’american dream che questa terra innaffiata di contraddizioni sia riuscita a partorire e che la forza dell’imprenditore stava anche in quel rapporto viscerale dell’uomo con la sua comunità, in quel carisma bisbetico che strapazzava indifferentemente deputati e operai, in quel volo del calabrone dal feudo alla fabbrica declinato alla fine del secolo scorso e terminato nel letto della villa sulla Campana.

Sì, sabato scorso è morto un protagonista - nel bene e nel male - di quel concetto novecentesco che chiamiamo "sviluppo". E con la sua morte, anche a Casarano, il '900 è finito.

photocredits: tuttocasarano.it



martedì 19 luglio 2011

I 21 giganti eolici intorno al pozzo di Avetrana

«Allu Mosca» dice Michele Misseri nella confessione che porterà al ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi in contrada Mosca. «Località Mosca» si legge nella determina della Regione Puglia che sottopone a valutazione d'impatto ambientale l'impianto eolico «Avetrana Nord». Ventuno pali eolici assiepati al confine delle province di Taranto, Brindisi e Lecce, nel territorio di quel piccolo centro salentino divenuto da quasi un anno la capitale delle morbosità da domenica pomeriggio. Ventuno giganti eolici, ciascuno da tre megawatt di potenza, cento metri di altezza, cinquanta metri di raggio: ventuno giganti d'acciaio da 150 metri ad accerchiare il pozzo nel quale fu ritrovato il corpo saponificato - così lo definì l'autopsia - della ragazzina di Avetrana.

Perché questi dettagli da grand guignol? Perché nella determina coscienziosamente stilata dal dirigente dell'ufficio regionale per la valutazione d'impatto ambientale del progetto proposto dalla Monte srl (già Eolica Avetrana, già Enertec srl) sono esaminati tutti i vincoli previsti dalle norme. Quello che manca – e non poteva essere diversamente – è quella sorta di vincolo impalpabile che si chiama rispetto per un profilo del territorio che va oltre il paesaggio e lo skyline e entra in quella dimensione simbolica che ha a che fare con la morte.

Nella determina 107 del 2 maggio scorso, infatti, è valutato tutto: la rimozione di due ettari di vigneto e dieci alberi di ulivo, che verranno espiantati senza alcuna compensazione ambientale; la presenza di altri impianti eolici nei comuni vicini di Erchie, Salice Salentino e San Pancrazio che rischiano di creare un «effetto selva»; l'effetto sul paesaggio, visto che i ventuno giganti d'acciaio avranno «un impatto visivo elevato» (parole che la stessa azienda usa nel suo progetto) per chi viaggia in auto o in treno tra Lecce e Taranto; la presenza di muretti a secco e di acque a rischio di contaminazione salina; soprattutto il potenziale disturbo per le rotte dei rapaci che nidificano nella zona e perfino il tasso di sicurezza per le costruzioni circostanti in caso di rottura dell'aerogeneratore.

Il coscienzioso dirigente dell'ufficio regionale, però, non poteva (e ovviamente non doveva) valutare un altro impatto, tanto più impalpabile perché irrazionale. Ma non per questo immotivato. Nel campo delle energie alternative molte aziende non si sono poste come problema il rispetto del paesaggio e dello skyline, ma questa azienda non si è posto come problema trasformare in un luogo di business il teatro del più sacro degli eventi umani, la morte.

Perché, non so a voi, ma a me ha fatto correre un brivido lungo la schiena immaginare ventuno giganti d'acciaio stretti in cerchio intorno al pozzo dove per giorni e giorni è rimasto immerso nell'acqua il corpo di Sarah Scazzi, quasi un'ultima violenza alla ragazzina di Avetrana, un'estrema intrusione in una vita tanto breve quanto morbosamente spiata al microscopio della domenica pomeriggio.

venerdì 8 luglio 2011

Masseria Ghermi: la memoria e la vergogna

In una terra dalla memoria corta, la storia di Masseria Ghermi merita di essere ricordata, anche solo per vergognarcene un po'. Perchè su quei tre spiazzali di cemento è successo di tutto. Ci ha fatto i suoi affari la peggiore sacra corona unita, quella che tentò la strada delle stragi per destabilizzare i processi. Ci ha sudato sangue lo stato, con le forze dell'ordine e la magistratura che hanno imbastito indagini e concluso processi per tagliare le unghie alla criminalità organizzata. Ci è naufragata la politica, che non è riuscita a gestire la pancia xenofoba di certo elettorato, con uno schema rovesciato rispetto alle impostazioni classiche: centrosinistra "intollerante" versus centrodestra "accogliente". Alla fine della fiera chi ci ha perso è Lecce che - caso più unico che raro - ha restituito intatto a Roma un finanziamento da un milione di euro. Ora ci riprova, con un finanziamento che vale il doppio: speriamo che esercitare la memoria (e magari la vergogna) aiuti a non perdere anche questo.

Bisogna inoltrarsi nelle campagne vicino Giorgilorio, tra Surbo e la provinciale Lecce-Torre Chianca per trovare la masseria Ghermi, che di tale ha solo il nome: si tratta in realtà di ruderi risalenti agli anni '80 che si affacciano su tre enormi spiazzali di cemento. Qui faceva i suoi affari, collegati all’edilizia e al movimento terra, Angelo Vincenti, il boss della Scu di Surbo che viene ritenuto il mandante della bomba al rapido Lecce-Zurigo. Era il 5 gennaio 1992 quando scoppia un potente ordigno sul cavalcaferrovia di Surbo, dal quale poco prima era passato il treno, a bordo del quale viaggiavano 800 viaggiatori: un'imprecisione di pochi minuti che evitò un massacro. L'idea, a quanto se ne sa, era quella di condizionare i maxiprocessi che proprio in quei mesi si aprivano e che avrebbero portato alla decapitazione della Scu leccese.

L'anno seguente, nel gennaio del '93, Vincenti viene arrestato con l'accusa di tentata strage e associazione mafiosa e i suoi beni, dopo una lunga trafila giudiziaria, vengono confiscati; tra di essi c'è la masseria Ghermi, che l’Agenzia del Demanio consegna il 22 dicembre 1998 al Comune di Lecce. Passeranno otto anni prima che venga elaborato un progetto: area di sosta per immigrati di nazionalità Rom e Sinti, per sostituire il già allora fatiscente campo di Panareo.

Il finanziamento, un milione di euro, arriva dalla misura 2.5 del Pon sicurezza del Ministero dell’Interno, riservato al riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia. Ma contro il progetto approvato nell’estate del 2006 dalla giunta di Lecce, allora guidata da Adriana Poli Bortone, si schiera subito l'amministrazione comunale di Surbo governata dal centrosinistra di Antonio Cirio. Il 21 settembre 2006 il consiglio comunale surbino «manifesta il proprio palese dissenso nei confronti del progetto riguardante l'insediamento del predetto campo nomadi». Inoltre, assistita dall'avvocato Valeria Pellegrino, l'amministrazione impugna la delibera della giunta Poli con un ricorso al Tar di Lecce.

I giudici amministrativi risponderanno il 20 dicembre, con parole nettissime: il ricorso è bocciato - si legge nella sentenza - perché
«un’amministrazione comunale non può farsi portatore di istanze di tipo egoistico e, quindi, particolaristiche, dovendo invece agire a tutela di interessi pubblici generali».
A questo punto a Surbo scattano le manifestazioni: il «campo nomadi» comunque non s’ha da fare. «La situazione era pesantissima - racconta Francesca Mariano, ex assessore all'immigrazione – avevamo paura di vederci comparire davanti soggetti armati di pistola. Il prefetto di allora fece davvero l'ufficiale di governo, prese in mano la situazione e evitò una guerra civile». In quell'occasione fu Gianfranco Casilli a convocare un vertice in prefettura il 29 gennaio 2007 e a convincere la Poli a cercare nuove soluzioni per masseria Ghermi. «Ho detto sì ad una condizione - furono le parole della lady di ferro, per addolcire la sconfitta - di trovare soluzioni diverse che ci consentano di non perdere i finanziamenti».

Non fu così: per costruire alcune delle abitazioni fisse del campo sosta Panareo, in effetti, si trovarono fonti di finanziamento diverse da quelle del Pon sicurezza. Ma che fine fece il milione di euro stanziato per ristrutturare l'immobile confiscato al clan Vincenti? «Ci è stato revocato» risponde Maurizio Guido, dirigente comunale al patrimonio, il settore che dopo molti palleggiamenti si è visto scaricare la patata bollente di masseria Ghermi. «D’altronde era inevitabile: i tecnici del Ministero hanno verificato che il progetto di campo Rom, per cui era stato erogato il finanziamento, non era mai stato attuato e quindi si sono ripresi i fondi».

Così, tra scontri politici e sentenze giudiziarie, progetti messi a punto con anni di ritardo e poi cancellati da vertici in prefettura, i tre grandi spiazzali di cemento strappati al boss Vincenti trovano una nuova destinazione il 25 maggio del 2009, con una delibera della giunta di Paolo Perrone: un centro alloggio per senzatetto, con un finanziamento richiesto di due milioni e centomila euro. Accordato nei giorni scorsi, come tutti i mezzi di informazione locale hanno comunicato (qui l'articolo di 20 centesimi).
Il gioco dell'oca del riutilizzo di Masseria Ghermi è ripartito dal via, stavolta con un finanziamento doppio: speriamo che esercitare la memoria (e magari la vergogna) aiuti a non perdere anche questo.

Photocredits: Brandi2010-TeleRama, La Repubblica, Comune di Surbo, Biancoenerored.wordpress, atsl.it

martedì 5 luglio 2011

Lo spettro di Rosarno, le angurie di Nardò

C'è un cocktail esplosivo al gusto di anguria, che la tramontana sta shakerando nelle campagne salentine. Si scrive Nardò, si legge Rosarno. Come la località calabrese nella quale scoppiò la rivolta degli schiavi delle arance. Esplosero nel 2010 gli scontri tra i 1500 immigrati impiegati in agricoltura, stufi dello sfruttamento e dell'intolleranza di cui erano oggetto, e i cittadini che viceversa erano stufi di quelle presenze estranee che cambiavano la faccia del paese. Scontri durissimi, ai quali probabilmente non era estranea la 'ndrina locale dei Bellocco. Niente del genere è mai accaduto a Nardò, la capitale del regno delle angurie nella quale fino a qualche anno fa le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati non erano diverse da quelle di Rosarno: le ore massacranti sotto il sole a raccogliere frutti pesanti anche più di dieci chili, il sonno sfiancati dalla fatica in casolari abbandonati senza acqua né luce o direttamente sulla terra, sotto gli ulivi. Tutto per 30 euro a giornata, dopo la lauta cresta dei caporali che dal magro compenso in nero detraevano i denari per il trasporto, il cibo, perfino per il sorso d'acqua da bere sui campi arsi.

Una situazione pronta ad esplodere, fotografata nella ricerca che l'Ires ha presentato sabato scorso a Roma. L'Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil ha misurato il «rischio Rosarno» in Italia, con risultati inquietanti: la provincia di Lecce è nel gruppo delle peggiori 15 province d'Italia, con un rischio di conflitto sociale «molto alto». "Gli immigrati che lavorano in agricoltura - si legge - sono soprattutto uomini giovani che ricoprono attualmente un ruolo fondamentale nel lavoro stagionale per la sopravvivenza di tante imprese agricole. In queste zone, ci troviamo di fronte ad un sistema, quello agricolo, che utilizza il lavoro migrante perché risulta meno costoso e più vulnerabile. Lavoratori facilmente sfruttabili e ricattabili per la mancanza di permesso di soggiorno o per la necessita di rinnovarlo". La ricerca dell'Ires, più che come un campanello d'allarme, suona come una sirena d'emergenza alle orecchie di chi deve intervenire. Ma ha un difetto: si basa su dati tutti veri ma tutti vecchi, quando lo sfruttamento delle aziende e il sonno delle istituzioni generavano il mostro dello schiavismo.

Molto è cambiato però nelle campagne di Nardò, da quegli anni documentati dall'inchiesta che rappresenta la prima puntata dell'Indiano, il programma d'inchiesta di TeleRama. L'accoglienza, soprattutto: ha aperto i battenti Masseria Boncuri e rappresenta uno dei rari esempi in cui istituzioni diverse (il Comune di Nardò, che ne è proprietario; la Regione Puglia, che ne ha finanziato la ristrutturazione; la Provincia di Lecce, che ha acquistato le tende) hanno disinnescato senza litigare un problema esplosivo, grazie anche alla passione e al pragmatismo della cooperativa Finisterrae che gestisce il campo. Lo stato ci ha messo del suo: senza il fiato sul collo della prefettura di Lecce forse quelle istituzioni avrebbero ceduto alla tentazione sempre in agguato delle chiacchiere e delle polemiche. E anche le aziende hanno sentito quel fiato sul collo, materializzatosi per tutta la stagione nelle continue visite dell'ispettorato del lavoro: le angurie quest'anno sembravano un po' meno nere, il sommerso sembrava cominciare ad emergere.

Poi, è arrivata la tramontana. Che c'entra? C'entra, eccome. Perché senza caldo l'anguria non si vende. Il frutto dell'estate si mangia ghiacciato a fette da un euro l'una nei bar milanesi o nei ristoranti baresi per sfuggire all'afa che non ti lascia respiro. Niente afa, niente anguria: semplice. O poca, pochissima, molto meno di quanto i 1500 ettari di Nardò ne producano ogni giorno. Così i frutti dell'estate marciscono tra la terra rossa, le aziende che cominciavano a mettersi in regola arrancano, le ore di lavoro sotto il sole sono due o tre al giorno. E tra i quasi mille immigrati accorsi nel reame dell'anguria comincia a serpeggiare la rabbia e la frustrazione, fomentate dai caporali, che ancora circolano a Nardò. Rabbia e frustrazione che fanno rima con quelle degli imprenditori che da quelle fette succose spremevano non meno di 25 milioni di euro a stagione. Non sono fiori di campo, quegli imprenditori: c'è qualcuno che ha anche precedenti penali e qualcuno che sembra vantare rapporti amichevoli con la Scu locale. E se la rabbia degli immigrati a braccia conserte si mescola con la frustrazione degli imprenditori dalle mani pesanti, gli sforzi di questi anni rischiano di essere stati spesi invano. E il cocktail al gusto d'anguria rischia di rivelarsi esplosivo, come non lo è stato mai.

Photocredits: Fusco2008-TeleRama, Ires

lunedì 20 giugno 2011

Teppisti cromatici/5: Il lido spaccatorre

"e allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte 'e manifestazioni e ste fessarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. è importante la bellezza: da quella scende giù tutto il resto" (i 100 passi)

Personalissima rassegna della piccola bottega degli orrori stilistici salentini: colori incongrui, scelte infelici o semplici pugni nell'occhio che gonfiano di pinnacoli moreschi e sciabolate cromatiche il volto di una terra perfetta nella sua semplicità.

Un'immagine vale più di mille parole, si dice. E' struggente l'immagine del blu del mare dello jonio che fa rima con quel cielo che gronda calura che i salentini conoscono bene. Anzi no: sarebbe struggente, con la torre d'avvistamento calcinata dal sole che svetta tra il verdeamaro della macchia mediterranea sulla lingua di terra di Torre Lapillo. Skyline non più struggente, ma distrutto dal lido balneare che all'improvviso gli è cresciuto addosso, tirato su con squillanti travi bianche e insolenti teli arancio.


Intendiamoci: i lidi balneari sono l'ultimo dei problemi di Torre Lapillo e Porto Cesareo, due marine devastate dall'abusivismo che negli anni '70 e '80 ha ingoiato dune, divorato campagne, risucchiato pinete per far posto a una distesa di cubicoli di cemento. Seconde case tricamere e servizi o alveari turistici dove inzeppare i vacanzieri, come lo scheletro dell'albergo costruito a 20 metri dal mare sequestrato dalla Finanza nel 2009 e restituito ai proprietari dal Tar l'anno dopo.


No, non è il lido spaccatorre segnalato da Gianfranco Budano il problema di quel grumo di abusivismo e arroganza che si è mangiato una delle coste più belle del Salento. Ma forse non concedere quella concessione balneare e lasciare quegli scogli sospesi tra il blu del mare e la rima del cielo a chi è capace di avventurarcisi, avrebbe conservato un'ultima immagine struggente in un paesaggio troppo devastato.

Teppisti cromatici da segnalare? danilo976@libero.it o "Danilo Lupo" su fb



sabato 11 giugno 2011

Legittime provocazioni

Ieri ho fatto un esperimento. Ho scritto sul mio stato di facebook una provocazione e poi una cosa in cui - viceversa - credo profondamente. La provocazione era questa:
tentato dal non votare al referendum sul legittimo impedimento...
La cosa in cui credo profondamente, invece, l'ho scritta quando mi è stato chiesto il perchè, ed era questa:
perchè mi sono stancato della politica ossessionata dalla giustizia... e vorrei segnalare che nucleare e acqua sono questioni molto più importanti di cui si parla solo negli spazi liberi lasciati da avvocati e pm per riprendere fiato
Apriti cielo: alcuni dei miei amici virtuali più bravi e preparati sono insorti. Un bravo giornalista, un bravo professore, un bravo magistrato, un bravo ambientalista, un bravo osservatore, un bravo giurista hanno articolato il perchè, a loro avviso, stessi sbagliando. Tra commenti e risposte ne è uscito un dibattito così interessante che mi pare un peccato lasciarlo lì a vegetare su uno status privato. E allora eccolo qui:

Il bravo giornalista, Emilio Mola, ha scritto:
ragà è la giustizia che va al primo posto. E' la (in)giustizia il cancro di questo paese. Se la giustizia funzionasse avremmo meno mafia (che tra fatturato e danni all'imprenditoria si fuma ogni anno centinaia di miliardi di euro al sud), meno corruzione (altri 120miliardi), meno evasione (altri centinaia di miliardi) e così via. Tutti soldi che resterebbero nelle nostre tasche e in quelle dello Stato. Quindi meno tasse, meno debito, e così via all'infinito.
E quando gli ho chiesto se è di questa giustizia che parla la politica o il referendum, la sua risposta è stata questa:
certo che sì. Fino a che avremo politici criminali (casellario alla mano) interessati loro per primi a sfasciare la macchina della giustizia per evitarsi la galera, resterà tutto così com'è. Il legittimo impedimento è l'ennesima mossa della politica in tal senso. Quindi è da qui che bisogna partire. Dobbiamo smetterla con l'idea che in Italia diventare un politico significa diventare un semidio
A lui la mia risposta è stata questa:
purtroppo del funzionamento vero della giustizia in italia non mi sembra che freghi granchè a nessuno. spiego cosa intendo per funzionamento vero.
primo: la criminalizzazione della marginalità sociale, che ha farcito fino a farle scoppiare le nostre carceri di disgraziati (immigrati e tossici, per lo più) che sono semplicemente le persone per le quali la società non ha trovato alternative a priori alla criminalità comune nè percorsi di reinserimento a posteriori nel contesto legale (nel nostro interesse, prima ancora che nel loro). si preferisce dare una risposta semplice e immediata alla domanda sociale di sicurezza (e se poi questa domanda sia reale o indotta è un altro discorso): creare discariche nel quale conferire la monnezza sociale. anche in questo caso, io sono per il riciclo.
secondo: il rapporto tra magistratura e polizia giudiziaria. sembra un dettaglio, ma è un nesso essenziale della legalità e anche della democrazia. la riforma della giustizia presentata da questo governo slega i due aspetti e la conseguenza è, a mio avviso, molto più pericolosa di cento legittimi impedimenti. oggi i giudici sono i garanti del rispetto delle regole nelle operazioni delle forze dell'ordine, domani questo controllo preventivo andrebbe a rompersi. qualcuno si ricorda ancora quel buco nello stato di diritto - al di fuori di qualsiasi controllo preventivo di legalità - che prese i nomi di diaz e bolzaneto a genova? ecco, appunto.
terzo: il costo delle liti temerarie e la velocità dei processi. anche qui, sembra un dettaglio ma non lo è. oggi chiunque si senta danneggiato da una decisione dello stato (ma anche da un articolo di giornale, ad esempio) fa causa. tanto non costa niente e anche se il ricorso è strampalato e evidentemente infondato, avrà ottenuto quanto meno di rallentare l'esecuzione della decisione (o magari di intimidire l'autore dell'articolo). se invece ci fosse una multa salata che sanziona la lite temeraria, che dica che aver fatto ricorso è un tranello bello e buono alla giustizia effettiva, le opere pubbliche non sarebbero decise dai tribunali (vedi 275) o non languirebbero nelle aule di udienza (vedi fse) e non ci sarebbe l'eventualità di un'intimidazione a mezzo querela (o ancor di più, a mezzo risarcimento danni) verso articoli scomodi.
e ne avrei di quarti e di quinti e di dodicesimi e di cinquantasettesimi, ma per ora basta così.
Il bravo giudice, Pierpaolo Montinaro, ha scritto:
mi permetto di intervenire su questa tua poco convincente affermazione (forse più avventata che altro) x farti osservare che di acqua e nucleare si sia parlato di più che del legittimo impedimento e che l' idea complessiva dei referendum è la riaffermazione del concetto di legalità. Ora so che non sarai mai d' accordo con me x il tuo spirito di contraddizione e di non accettazione del dissenso. Perciò ti anticipo che non interverrò più.
E la risposta, in questo caso, suonava così:
hai ragione quando definisci avventata la mia affermazione. infatti era - lo ripeto - una provocazione. però di legittimo impedimento (almeno a livello di slogan) avevamo tutti sentito parlare già nei mesi scorsi, se non altro per le polemiche furiose e le accuse incrociate che erano volate come al solito nel dibattito politico e in quello mediatico che ne viene trainato. io invece non ho visto nei tg la notizia della legge che obbliga a privatizzare la gestione dell'acqua. di nucleare si è parlato un po' di più, è vero, ma sempre infinitamente meno di qualunque lodo, leggina, normetta che riguarda i procedimenti giudiziari di berlusconi.
Il bravo professore, Stefano Cristante, ha scritto:
Ripristinare l'eccezionalità del legittimo impedimento rappresenta una restituzione simbolica di grande eguaglianza, condizione della quale abbiamo estremamente bisogno tutti. Stiamo abituandoci a un mondo in cui non crescono le diversità, ma le disparità più inverosimili. Occorre ristabilire un equilibrio tra i cittadini per rifondare una comunità consapevole. Soprattutto in Italia
Il bravo osservatore, Cesà Saracino, invece ha scritto:
Andare a votare contro il legittimo impedimendo a mio parere è lanciare un segnale forte nei confronti dei privilegi della politica...In realtà se pur un quesito che sicuramente non risolverà granchè, dato che non sarà impedendo al premier di cercare una scorciatoia per non comparire in udienza che si risolve il problema, purtroppo.. è comunque un picccolo passo! sarei il primo, se l'accesso alla carriera politica fosse vincolato al rispetto di requisiti ben precisi, ad ipotizzare addirittura un istituto vicino all'immunità parlamentare...tale da allontanare ogni sospetto dalla fantastica invenzione della cosiddetta magistratura politicizzata. Ma verrà mai impedito a condannati e indagati di candidarsi? La vedo veramente difficile....Dunque procediamo in questo senso ed andiamo a votare.
Erano due punti di vista tutto sommato simili, ecco perchè la risposta è stata ad entrambi:
in realtà la legge su cui siamo chiamati ad esprimerci domani non lede il principio di eguaglianza tra i cittadini. e spiego perchè. quando venne scritta e approvata, nel marzo 2010, effettivamente la legge sul legittimo impedimento stabiliva che berlusconi o i suoi ministri potevano usufruire del rinvio obbligatorio delle udienze che li riguardavano in caso di (autocertificati) impegni istituzionali. in pratica l'imputato decideva quando (e - di fatto - se) celebrare il processo e il giudice ubbidiva. detto così, ricorda quella canzone di de andrè in cui un magistrato si rivolge all'imputato con queste parole: "oggi un giudice come me, lo chiede al potere se può giudicare. tu sei il potere. vuoi essere giudicato? vuoi essere assolto o condannato?". detto così va bene non solo il referendum, ma anche la rivolta civile. il problema è che così non è. nel gennaio scorso la corte costituzionale, interpellata dalla procura di milano, ha riscritto le parti giudicate in contrasto con la costituzione e ha - di fatto - rovesciato
il senso della legge. cioè con la legge su cui dobbiamo esprimerci domani il presidente del consiglio imputato può chiedere il rinvio dell'udienza accampando un legittimo impedimento, ma poi sta al giudice ordinario (cioè alla procura di milano) decidere se quell'impedimento è legittimo o meno e se il rinvio avrà luogo o no. quindi, con la riscrittura da parte della corte costituzionale, il giudice decide e l'imputato obbedisce, nè più nè meno di come succede già oggi: in base al codice penale qualunque imputato può chiedere il rinvio di un'udienza fornendo una motivazione che poi starà al giudice valutare. quindi in questo non c'è disparità tra i politici e i cittadini. allora perchè il referendum? perchè le firme sono state raccolte prima che la corte costituzionale si esprimesse, rovesciando di fatto la legge, e la corte di cassazione ha comunque dichiarato ammissibile il quesito che mira a cancellare una norma che - con queste premesse - è inutile, ma non dannosa. poi l'italia dei valori, che ha raccolto le firme, dice chiaramente (basta vedere il sito) che questo è un referendum su berlusconi. e questa è una legittima interpretazione politica, ci mancherebbe! ma è esattamente l'avvitamento su sè stesso del dibattito pubblico che mi ha profondamente stancato.
Infine il bravo ambientalista, Gianni Pède, ha scritto:
... fatte na doccia !
E quando il bravo osservatore ha aggiunto un altro parere, cioè questo:
...il discorso sulla politica ossessionata dalla giustizia che toglie spazio ai veri problemi del nostro paese, fila dritto....Ma quanto è intrecciata la matassa in questione? Sono i media e la politica che parlano troppo di giustizialismo... togliendo spazio al resto o quest'ultimi ne parlano perchè c'è un premier a tanti altri che usano la politica per pararsi il sederino? Dunque...è la giustizia politicizzata che toglie spazio ad altro o la classe politica che ha trovato una scorciatoia non per affrontare i problemi seri del paese ma per altro? Non pensate che di questa giustizia politicizzata se ne faccia un uso anche favorevole? Un Governo fermo da tre anni, e non certo per causa dei giudici, ha interesse a far parlare i media del suo operato o di un male insormontabile che paralizza le istituzioni? Non facciamoci prendere in giro ragazzi!!
La risposta del bravo ambientalista è stata questa:
... non fila mank'ar'k... è una classica giaculatoria dei media berlusconiani ... strano sfugga ai lupi cose de sto tipo ... cmq ... tant auguri !
E la mia replica quest'altra:
i media berlusconiani non dicono che la politica è ossessionata dalla giustizia, bensì che la giustizia è ossessionata dalla politica e più precisamente i giudici di milano sono ossessionati da berlusconi. ripeto per l'ennesima volta: la mia era una provocazione. ma rimango convinto che aver spostato tutto il peso del dibattito pubblico sulle bilance della giustizia abbia fatto molto comodo proprio a berlusconi, che di questo tema ha fatto il suo cavallo di battaglia e ci ha corso sopra per quasi vent'anni, prima di ritrovarsi azzoppato a milano.
In capo a tutto avevo posto una premessa, che articolava meglio quell'osservazione in cui credo profondamente articolata all'inizio; e la premessa era questa:
premetto: la mia era una provocazione. che però segnala un fatto che a me sembra oggettivo: la politica è lo strumento che la società ha inventato per decidere come amministrare i beni comuni e per giustifica...re in nome di quali idee e quali visioni del mondo si compiono quelle scelte. per cui il primo compito della politica è occuparsi di cose, cose concrete e assumere delle decisioni sulla gestione dei beni comuni. in italia, mi pare, di queste cose non si parla più: il dibattito pubblico è ipertroficamente avvitato in una discussione tutta politicistica sulla figura di berlusconi e sui suoi procedimenti giudiziari: il centrodestra per difenderlo, il centrosinistra per attaccarlo. questo è il dibattito pubblico che ci propinano, mentre di cose concrete non si parla più; e ci propinano tutti, da minzolini a santoro, da posizioni opposte. tranne ovviamente le solite lodevoli eccezioni (report e presa diretta, fondamentalmente) alle quali sembra che si stia aggiungendo (e subito sottraendo) current tv: in quegli spazi si parla ancora di gestione concreta dei beni comuni (l'acqua, la terra, l'economia, eccetera eccetera eccetera). ma sono nicchie che sfuggono a stento al dibattito politico dominante (e al dibattito mediatico a rimorchio) che è tutto centrato sulla classe politica, più che sulle decisioni collettive da prendere nella gestione dei beni comuni. da qui quella che - ribadisco - era una semplice provocazione che però segnala una stanchezza rispetto a un livello pubblico del dibattito che sembra la favola del fagiolo magico: una pianta che si sviluppa così ipertroficamente da raggiungere il cielo.
Ma l'osservazione a mio avviso più ficcante l'ha fatta il bravo giurista, Marco Nicolì: lui si troverà a votare a Washington, essendo impegnato a lavorare nella World Bank. E la sua osservazione, disarmante nella sua semplicità e nettezza, è stata questa.
una volta un caro amico disse "non si vota per dare segnali, ma con la prospettiva che quello per cui si vota venga approvato"... d'accordo che l'acqua e il nucleare sono piu' importanti, ma finche' abbiamo criminali al governo cosa credi sara' privilegiato, la tua acqua o i loro interessi?
Qui non ho risposta: al di là delle provocazioni, mi sembra un ottimo motivo per andare a votare.

lunedì 6 giugno 2011

L'università, una grande famiglia


C'è un virus strisciante che infetta l'università italiana. E dal quale non è immune l'Università del Salento: si chiama parentopoli. Uno scandalo sordo, perché se qualunque sperduto municipio diventasse il nido di covate di figli e nipoti come accade negli atenei, il giorno dopo l'opposizione al sindaco farebbe fuoco e fiamme, gli esposti in procura fiorirebbero come i ciliegi in primavera e non si conterebbero i blitz di finanza, carabinieri e polizia. Strisciante, quel virus in università, perché nell'amministrazione universitaria non c'è opposizione, sulle scelte interne ad un'istituzione decisiva per il paese non c'è dibattito pubblico e la gestione è (giustamente) consociativa.

Le obiezioni sono note: chi è un bravo professionista non va penalizzato solo perché figlio di un altro bravo professionista; chi assume un ruolo in ateneo lo fa tramite di un concorso pubblico e a un esame dei titoli e delle pubblicazioni; l'università non è diversa dalla società, nella quale studi professionali e imprese private passano di padre in figlio in virtù di un legame di sangue, non di un primato conquistato sul campo.

Facile sarebbe smontare quelle obiezioni: di bravi professionisti ce ne sono tanti, tantissimi, strano che la rosa si restringa improvvisamente quando si tratta di concorsi universitari; studi professionali e aziende private sono sul mercato e pagano le scelte infelici (leggi: il parente incompetente) perdendo clienti e fatturato; in università non accade la stessa cosa e le scelte infelici si fanno a spese altrui (leggi: contribuenti e studenti). Ma soprattutto, chiunque conosca le dinamiche universitarie sa che quei concorsi universitari sono solo formalmente aperti a qualsiasi risultato: in realtà sono cooptazioni di un ricercatore da parte di un gruppo scientifico o di un singolo docente. Prima si individua il vincitore, poi gli si cuciono addosso criteri su misura.

Ma smontare quelle obiezioni è ancora più facile di così. Basta che ciascuno di noi frughi nella sua memoria e si chieda quante straordinarie teste sono volate via dal Salento impoverendoci tutti. Io l'ho fatto e di cervelli straordinari e di facce che li nascondevano me ne sono venuti in mente a pacchi. Cito solo tre storie, diversissime tra loro.

Giorgio, 36 anni, rampollo del più importante istituto di credito salentino (e non solo). Aveva l'impero locale su un piatto d'argento, ha preferito rischiare in proprio e dopo la laurea in Bocconi ha voluto perfezionarsi a Princeton e infine rimanere negli Stati Uniti per insegnare nella Northwestern University di Chicago.

Andrea, 32 anni, figlio di un dipendente delle Ferrovie dello Stato. Lui, sul piatto d'argento aveva solo i biglietti gratuiti del treno; gli sono serviti: ha scelto di studiare in un'università cattolica del nord Italia non per intima vocazione ma per una congrua borsa di studio. Oggi è uno dei pochi italiani che lavorano a Bruxelles per la Commissione Europea.

Antonio, 22 anni, figlio di un ex consigliere regionale. È più giovane degli altri due, ma promette bene: non solo come blogger (i suoi bellissimi post potete leggerli qui) ma anche come politico. Ha iniziato a far palestra nel luogo in cui si alleva la classe dirigente italiana, i cui giovani virgulti l'hanno stravotato come rappresentante studentesco nel cda della Bocconi, retto da Mario Monti.

Ogni exploit personale di questi ragazzi, lontano dalla terra in cui sono nati, è un successo per loro e un fallimento per noi. Intendiamoci: svuotarsi della retorica del Salento d'amare per riempirsi delle idee che circolano nel mondo fa solo bene. Ma ogni testa che non torna a casa piena di queste idee si traduce in una nazione e in un provincia un po' più asfittiche e un po' più ripiegate su sé stesse. Così torniamo a quel virus che infetta l'università italiana e anche quella del Salento. Qualche conto, qualche nome e qualche albero genealogico provò a farlo l'Indiano due anni e mezzo fa, quando il programma di TeleRama era ancora acerbo ma già si divertiva a sfrucugliare nelle magagne del Salento.



Dopo la pubblicazione on line di questo pezzo risalente al dicembre 2008, la professoressa Cecilia Santoro (citata per il marito e i figli che lavoravano in ateneo) ha aggiornato le informazioni. E ha implicitamente allungato la lista delle storie con quella di Daniele, 35 anni, suo figlio. Sei anni di ricerca precaria nella facoltà salentina di Ingegneria e una prospettiva da un lungo, lunghissimo percorso da travet universitario. Meglio far la valigia e portare il suo cervello al servizio del Barcelona Supercomputing Center.

Che c'entrano tutte queste storie con il virus che infetta l'università italiana e anche quella del Salento? C'entrano.
Perché a quell'ateneo questo territorio ha affidato una funzione: quella di selezionare la classe dirigente e arricchire di cervelli e idee la ricerca, l'economia, le professioni, la cultura.
E ogni parente incompetente - o semplicemente meno bravo - che viene assunto in università toglie il posto a qualcuno che troverà di meglio altrove, lontano dal Salento e dall'Italia.
Per fortuna sua. E per sfortuna nostra.


giovedì 2 giugno 2011

Teppisti cromatici/4: Il Convento delle meraviglie

"e allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte 'e manifestazioni e ste fessarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. è importante la bellezza: da quella scende giù tutto il resto" (i 100 passi)

Personalissima rassegna della piccola bottega degli orrori stilistici salentini: colori incongrui, scelte infelici o semplici pugni nell'occhio che gonfiano di pinnacoli moreschi e sciabolate cromatiche il volto di una terra perfetta nella sua semplicità.


Quarto teppista: Il convento delle meraviglie

Il resort si trova al centro perfetto della provincia di Lecce, sulla Galatina-Collepasso, formalmente in agro di Cutrofiano, praticamente a due passi da Noha e Aradeo. Fino a qualche anno fa passando per quelle campagne vedevi un edificio antico, munito di una cappella privata e di una modesta torretta in avanscoperta sulla strada. Ma il rito del "battezzo" non perdona, i freschi sposi hanno fame di location inedite dove servire gamberoni alla griglia, i cresimandi devono pur fare accomodare i parenti tra stucchi e latticini. Senza contare la convegnistica di settore (enogastronomico, ovviamente) e le cene elettorali, indispensabile corredo di un'elezione sicura. Così l'antico edificio viene risucchiato nel business delle cerimonie.

La struttura era, in origine, un convento e luogo di preghiera delle suore di S.S. Maria di Leuca e questa atmosfera si percepisce ancora per la presenza di una cappella votiva dedicata alla Madonna, per la pace che si respira nella tranquillità del parco tra piscine e fontane, e per il profumo inebriante delle zagare e delle essenze mediterranee.
(dal sito www.sangiorgioresort.it)
L'edificio antico era - lo giuro - bello: un restauro accurato e rispettoso l'avrebbe reso bellissimo. Ma perché accontentarsi? Ed ecco sorgere pinnacoli moreschi e merli di pietra, crescere torrette bicolori sugli spigoli, spuntare palme caraibiche sul prato all'inglese. Le palme non fanno ombra? Niente paura, una tenda ipermoderna a spicchio d'arancia ombreggia le finestre, almeno quelle che non sono state trasformate in ogive gotiche sorrette da colonnine giallorosse. A salutare gli (incauti?) automobilisti un frontone con decorazioni dal vago sapore maya e due snelli corni di pietra.


Uno dice: ce n'è abbastanza. E invece no: mancava ancora quel tocco unico e inimitabile, quel quid che renda l'idea del lusso. E cosa c'è di più lussuoso, agli occhi dei cresimandi di Cutrofiano e dei nubendi di Aradeo, dei convegnisti di Collepasso e degli elettori di Galatina, di un bel vetratone liberty? Magari con un rosone multicolor che ricordi la chiesa appena lasciata e un contorno di stelline in ferro battuto e leziosi riccioli metallici?


A questo punto un dubbio s'insinua: non sarà, il convento delle meraviglie, come certe chiese barocche? Tanto abbacinante fuori quanto spoglio dentro? Anche a questo hanno pensato i cerimonieri del terzo millennio, che nel loro sito assicurano che l'interno rivaleggia con l'esterno per quantità e qualità di lusso:



Una sala ricevimenti con stucchi, argenti, arazzi, specchi e stupende decorazioni contribuisce a rendere indimenticabile ed unico qualunque evento.
Povero San Giorgio, si starà rivoltando nella tomba: tanta fatica per uccidere il drago per poi ricevere come ricompensa l'intitolazione di una sala ricevimenti. Chissà se, a saperlo prima, lo rifarebbe ancora.



Teppisti cromatici da segnalare? danilo976@libero.it o "Danilo Lupo" su fb



domenica 29 maggio 2011

Vecchi reati e nuova EcoMafia, parla la figlia del Boss

Non c'è molto da aggiungere alle parole di Tiziana Luce Scarlino, la figlia del boss di Taurisano noto come Pippi Calamita e dipendente dell'ati Lombardi-Cns, che gestisce l'appalto per i rifiuti nell'aro 6 dell'ato Lecce 2: 60 milioni di euro in nove anni. Il sospetto dei carabinieri, avvalorato da un'interdittiva antimafia della prefettura di Lecce e che gestori di fatto e soci occulti dell'appalto milionario fossero proprio Tiziana Scarlino insieme al marito Gianluigi Rosafio, condannato per smaltimento illecito di rifiuti aggravato da comportamenti mafiosi. "Ma i miei reati sono prescritti, non voglio pagare per le mie parentele" è l'autodifesa di Tiziana Scarlino nell'intervista andata in onda all'interno del TrNews Mattina di TeleRama il 28 maggio.



A mio avviso rimangono però inevase alcune domande che pesano, non solo quelle sul passato, ma anche e soprattutto sul presente: come mai la Lombardi Ecologia assume proprio i due coniugi al vertice della gestione dell'immondizia? Chi comandava davvero nell'appalto milionario dei rifiuti di Otranto? Le risposte offerte da Tiziana Scarlino non mi paiono del tutto convincenti.

Ma l'intervista solleva anche altre questioni che riguardano il dibattito pubblico.

Prima questione: le interdittive antimafia. Non sono garantiste, perché puntano a prevenire i reati prima che siano commessi. Da un lato la legge dovrebbe colpire gli atti, non le intenzioni; dall'altro lato è forse più giusto piangere sul latte, una volta versato? La risposta a voi.

Seconda questione: la prescrizione. La signora Scarlino la invoca (giustamente) e ricorda che in base ad essa è una persona incensurata.
E' la legge, non l'ho scritta io. Evidentemente erano reati minori
I liquami sversati nelle campagne, i reflui che hanno contaminato la falda, gli scarti illecitamente smaltiti in discarica sono considerati dalla Repubblica Italiana reati minori: non sarà il caso di farci un esame di coscienza? La risposta a voi.

Terza questione, forse la più importante: durante la trasmissione del 28 maggio, aperta come sempre alle opinioni di chi assiste, è arrivata la telefonata di un telespettatore. Qual era l'opinione? Che il tanto vituperato Pippi Calamita tutto sommato tanto cattivo non era: nel suo paese, Taurisano, ma anche in tutta l'area del Capo di Leuca ha sostenuto e aiutato molte persone. E lo Stato come ha ripagato quel benefattore? Con condanne e sequestri, anche confiscando la fabbrica che Scarlino possedeva sulla Gallipoli-Leuca, all'altezza di Salve.

Una bestemmia: quella fabbrica arrivò nelle mani del boss di Taurisano tramite uno dei peggiori strozzinaggi che siano stati provati in un'aula di tribunale, come potrete approfondire qui. Una bestemmia che però la dice lunga non solo sulla capacità della criminalità organizzata di mangiarsi l'economia sana, magari aiutata da qualche funzionario marcio annidato negli istituti di credito. Ma la dice lunga soprattutto sul consenso sociale che ha sostenuto la sacra corona unita, sull'acqua nella quale nuotava lo squalo della Scu. Non è arrivato il momento di rompere quel consenso? La risposta a voi.

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Un laboratorio sociale tra le bambole della Scu

Un laboratorio sociale tra le bambole della Scu

di Danilo Lupo
Dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 20 marzo 2011

Da tana della «tigre» a laboratorio dei mestieri: una metamorfosi difficile e lenta ma che potrebbe portare alla rinascita di uno dei più grandi beni strappato alla Sacra corona unita in provincia di Lecce. Un passo importante è stato compiuto negli ultimi giorni con la presentazione in Prefettura del progetto presentato dal Comune di Salve: l’obiettivo è ottenere dai fondi del Pon sicurezza i due milioni di euro con i quali il Comune potrà ristrutturare gli oltre 7mila metri cubi che il clan Scarlino riuscì a realizzare grazie all’usura.

La grande fabbrica tessile confiscata alla criminalità organizzata spunta tra gli oleandri della statale che da Ugento porta a Leuca, all’altezza della zona industriale di Salve. Attraverso i rami di un fico spoglio che si è impadronito della facciata si legge ancora la scritta tracciata vent’anni fa per specificare chi fosse il nuovo padrone dell’azienda: Scarlino Luciana, la figlia di Giuse ppe, il boss di Taurisano noto come «Pippi Calamita».

La sua società si chiamava «Tigre srl» e aveva preso il posto di quella dell’imprenditore di Presicce Ivano Paiano, la «Marta confezioni srl», che nei due capannoni di Salve fabbricava bambole di stoffa per conto terzi: un’attività esposta alle fluttuazioni del mercato e degli ordini.

La storia? Eccola. Quando Paiano si trova in difficoltà si rivolge alla sua banca: il funzionario, stando alle ricostruzioni degli inquirenti, da un lato gli nega il prestito ma dall’altro lo mette in contatto con il clan Scarlino. Saranno i 29 milioni di lire prestati direttamente da «Pippi Calamita» a rovinare Paiano, che nell’arco di pochi anni dovrà firmare assegni per 60 milioni e infine cedere la sua attività alla figlia del boss e alla sua «Tigre srl».

Un’usura da capogiro, sancita definitivamente il 12 marzo 1997 dalla corte d’Appello di Lecce che comminò 33 anni di carcere a sei componenti della famiglia Scarlino, dal capobastone Giuseppe alla figlia Luciana. Avranno una storia più tortuosa i capannoni passati da Paiano al clan, confiscati definitivamente solo nel 2001 e assegnati al Comune di Salve sette anni dopo, il 24 luglio 2008. Nel frattempo l’abbandono manda in rovina un’attività economica nella quale lavorano non meno di cinquanta persone, tra operai e impiegati, e gli oltre mille metri quadri di copertura in amianto dei due capannoni si sfarinano lentamente, trasformando la fabbrica sulla statale 274 in una bomba ecologica.

Proprio da qui parte il progetto del Comune di Salve: la sostituzione del tetto in amianto della fabbrica con nuovi tetti in regola con la normativa ambientale è il primo passo (e uno dei più costosi) del progetto discusso il 14 febbraio dal sindaco Vincenzo Passaseo assieme a Beatrice Mariano, il capo di gabinetto del prefetto Mario Tafaro. L’idea è di fare del grande immobile un «centro laboratoriale polifunzionale dei mestieri»: in pratica i ragazzi a rischio (di età compresa tra i 14 e i 21 anni) segnalati dai servizi sociali comunali della zona e dal tribunale dei minori troveranno nell’ex fabbrica del capoclan di Taurisano un luogo dove apprendere abilità artigianali: dall’arte della ceramica a quella della cartapesta, dal verde alla grafica, fino all’edilizia tipica, effettuando per quest’ultima esercitazioni pratiche nella «pajara» diroccata che sorge all’interno dei circa 4mila metri quadri di parco che circonda l’immobile.

Il progetto prevede anche la cucina e la sala mensa, quattro camere che possono ospitare complessivamente dieci persone, un’area relax e biblioteca, un’area ricreativa con angolo bar, ma anche una grande sala conferenze, evidentemente pensata anche per essere a disposizione della comunità di Salve per iniziative e manifestazioni. Per finire con le spese necessarie per gli impianti idrico, fognante, elettrico, di riscaldamento, elettrico e antincendio, ormai inservibili dopo vent’anni di abbandono. Totale del finanziamento richiesto: due milioni di euro, la cifra ritenuta necessaria per trasformare il frutto dell’usura in una struttura di recupero al servizio di un’intera comunità.

photocredits: TeleRama

Aggiornamento: accordato il finanziamento di due milioni di euro dal Ministero dell'Interno al Comune di Salve. La rinascita della fabbrica delle bambole può diventare realtà.



giovedì 26 maggio 2011

Teppisti cromatici/3: il fungo di Acquarica

"e allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte 'e manifestazioni e ste fessarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. è importante la bellezza: da quella scende giù tutto il resto" (i 100 passi)

Personalissima rassegna della piccola bottega degli orrori stilistici salentini: colori incongrui, scelte infelici o semplici pugni nell'occhio che gonfiano di pinnacoli moreschi e sciabolate cromatiche il volto di una terra perfetta nella sua semplicità.

Terzo teppista: il fungo di Acquarica

La pioggia, si sa, fa spuntare i funghi. Ma che i funghi contengano l'acqua questo no, non si sapeva. Invece succede ad Acquarica del Capo: la prima delle vostre segnalazioni sui teppisti cromatici in giro per la provincia arriva da Francesca Pizzolante. Che tornando a casa sua, si è vista spuntare davanti questo colossale cardoncello bianco, finemente (?) screziato.

Si dovrebbe trattare di una sorta di imbuto per la raccolta delle acque piovane; ma a parte i dubbi sull'utilità del fungo raccoglipioggia, la domanda è: quanto sarà stato pagato il progettista che ha "decorato" con questo oggetto misterioso, a metà tra il sarchiapone di Walter Chiari e un pleurotus albino, l'ingresso (come vedete qui) di Acquarica del Capo?

Appendice dedicata a una seconda segnalazione, stavolta in positivo: una settimana dopo il pezzo sul Sedile comandacolore, Rocco Longo ha scattato le foto che vedete qui. Il monumento cinquecentesco è tornato ad una (più) sobria illuminazione candida. Non sappiamo se per scelta dell'assessore Alfarano (e chissà quanto gli sarà costato non accendere i neon giallorossi nel sedile durante la festa della salvezza del Lecce) o semplicemente perchè questo, come accadeva su Postalmarket, è il mese del bianco.














Teppisti cromatici da segnalare? danilo976@libero.it o "Danilo Lupo" su fb

martedì 24 maggio 2011

"Io, figlia del Boss: e allora?"

Non è piaciuta a tutti, la storia dell'appalto che puzza di spazzatura e di mafia che pochi raccontano. Non al presidente Pdl dell'Ato, il primo a farsi sentire. Forse neanche alla coop rossa e al socio della Marcegaglia, che si giocano una partita delicata quaggiù nel tacco d'Italia. Soprattutto non è piaciuta alla figlia del boss, che ci ha tenuto a farlo sapere, con una autodifesa accorata e argomentata. E si capisce perché: la storia dell'appalto dei rifiuti nell'entroterra di Otranto non era raccontata in modo tenero. E neanche neutro. Era approfondita, nella volontà di capire quali e quanti sono gli interessi dentro la nostra pattumiera quotidiana, gli affari che si muovono in superficie, a pelo d'acqua ma anche al di là dello specchio.

A Silvano Macculi, presidente Pdl dell'Ato Lecce 2, quella storia non è piaciuta. E ha voluto far sapere subito due cose.

La prima: che il Pdl non c'entra nulla perché non governa l'Ambito territoriale ottimale che decide le sorti (e gli appalti) della spazzatura nel centro della provincia; certo, lui ne è presidente, ma è maggioranza il centrosinistra. A dire il vero nell'organo di governo dell'Ato le proporzioni tra i sindaci sono più complicate: 8 centrosinistra, 8 centrodestra più la centrista Ada Fiore. Un equilibrio così delicato, che alla fine a decidere è il presidente, cioè lo stesso Macculi grazie anche allo statuto che ne blinda la postazione e le funzioni. Ed è giusto che sia così: esporre un organismo composto da più di 40 campanili a continui ribaltoni politici sarebbe stato letale. E però è un fatto che il presidente dell'Ato Lecce 2 sia l'asso di briscola nella gestione dei rifiuti da queste parti. Ed è un fatto anche che sia un astro ascendente del Pdl salentino.

La seconda: che lui ha tenuto gli occhi ben aperti su quell'appalto, tanto da aver chiesto subito (com'è previsto dalla legge) la certificazione antimafia sulle ditte vincitrici, ovvero Lombardi Ecologia e Cns. E che fin da subito ha iniziato a contestare le pecche della Menhir (la società figlia di Lombardi Ecologia e Cns) nella raccolta dei rifiuti. E ha tenuto gli occhi aperti anche riservatamente, senza troppi strepiti ufficiali. Questo dice Macculi e non c'è motivo di non credergli. Va però detto anche che chi ha guardato storto fin dal primo momento la società figlia che aveva preso il posto delle due società madri erano i burocrati degli uffici. E che la certificazione antimafia è stata richiesta quando l'appalto da 60 milioni è stato assegnato: ma i problemi sono nati subito dopo, con l'assunzione di Gianluigi Rosafio e Tiziana Scarlino, le due figure intorno alle quali ruota l'interdittiva antimafia della prefettura. Se virus criminale c'è, è arrivato dopo le analisi del sangue.

Non è noto se la storia sia piaciuta al Cns, il colosso della cooperazione rossa con sede bolognese, e alla Lombardi Ecologia, la ditta barese partner negli affari del gruppo Marcegaglia in terra pugliese. Non è noto ma una cosa è certa: tra le visite internet registrate da questo blog nel periodo di pubblicazione di quel pezzo, 88 sono venute da Bari e 12 da Bologna. Chissà che di qualche visita non va ringraziata qualcuna delle ditte in ballo?

Di sicuro chi ha visitato questo blog e letto quella storia, è stato uno dei protagonisti della storia stessa: Tiziana Luce Scarlino, moglie di Gianluigi Rosafio e figlia di Giuseppe Scarlino, il boss della Scu di Taurisano. Perché ripeterle, queste parentele? Perchè il cuore dell'interdittiva antimafia è tutto lì: una sentenza d'appello del febbraio scorso ha stabilito che Rosafio ha inquinato terra e acqua sversando rifiuti dopo aver fatto piazza pulita dei concorrenti con modalità mafiose. Facendo pesare quella parentela: era il genero di Pippi Calamita, sposato con la figlia del boss.
Egregio sig. Lupo, LA FIGLIA DI UN BOSS non puo lavorare??????????Siamo in un paese con repubblica democratica nella quale le figlie dei Boss hanno diritto a lavorare, sopratutto quando lo fanno onestamente e con il prorio sudore. Come per altro accade per i giornalisti e i dirigenti sindacali...diritto di lavorare per tutti.
Oltretutto vorrei capire se essere la figlia di una persona definita BOSS che sconta la sua pena è una colpa o un reato???
Così ha commentato l'articolo che la riguardava Luciana Scarlino: un'autodifesa accorata e argomentata, dicevamo. E che non ha risparmiato quei sindacalisti che avevano raccontato di un certo imbarazzo al momento di sedersi al tavolo di trattativa con genero e figlia di Pippi Calamita.

Poi vorrei precisare a tutti voi sindacati se avevate imbarazzo a sedersi accanto alla mia persona, se avvertivate lo stesso disagio quando interloquivate con me in quanto dipendente per chiedere l'assunzione dei propri dirigenti sindacali o favoritismi ai propri iscritti....semmai se di disagio può parlare questi sindacati...potevano avere il disagio nei miei confronti solo per il confronto intellettuale..Questo sindacato se tale si può definire, dovrebbe tutelare i propri lavoratori iscritti anzichè fare terrorismo a spese delle persone che lavorano.
Infine una precisazione e una richiesta, rivolta a chi ha raccontato quella storia:

Fa comodo menzionare atti processuali ancora in corso che non mi vedono condannata definitivamente e comunque non per reati di mafia. Vorrei dargli la mia iscrizione sindacale...o è troppo razzista per accettarla???sig.Lupo mi auguro che queste parole la facciano riflettere,Per continuare a credere di vivere in uno stato di diritto mi auguro che si faccia piena luce su quanto mi avete ingiustamente attribuito.
Riflettere è sempre giusto: nessuno ha da spiegare verità piegate in tasca, in un blog, da una tv o su un giornale. Ma per arrivare a verità provvisorie e relative non si può che approfondire le decisioni dei giudici, cioè gli uomini ai quali lo stato (ovvero noi) ha delegato il compito di ascoltare accuse e analizzare difese, interrogare testimoni e esaminare prove. Per poi prendere decisioni, che non sono perfette ma sono le uniche legittime.
Gentile signora Scarlino, una premessa: razzista è esattamente l'ultima cosa che mi sento di essere. se non altro perchè sono figlio e nipote di emigranti e quindi so quanto il sospetto e il pregiudizio possano pesare, anche ingiustamente. ma qui non si tratta di pregiudizi, bensì di giudizi: come lei sa meglio di me, il primo grado del processo l'ha vista condannata per i reati contestati, mentre nel secondo grado è intervenuta la prescrizione: il che non equivale ad assoluzione ma comunque fa di lei - questo è bene sottolinearlo - una persona incensurata. la legge è legge, mi sono permesso di dire a chi polemizzava con quella prescrizione. ma la legge è legge anche quando riguarda le interdittive antimafia che, com'è noto, sono un atto cautelare: cioè non servono a punire dei reati ma a prevenirli. sono d'accordo: non è una colpa o un reato essere la figlia di un boss, ma i reati se mai sono stati commessi (stando a quanto stabilito nei primi due gradi di giudizio) smaltendo rifiuti in maniera illecita: è un precedente che merita attenzione oppure no? ancora una volta ribadisco: l'aggravante mafiosa riguarda solo e soltanto suo marito e solo e soltanto nel secondo grado di giudizio, mentre nel primo grado altri giudici non l'hanno ritenuta fondata. ad oggi, però, la realtà è quella di una condanna d'appello con l'articolo 7 delle aggravanti mafiose del reato commesso.
Fin qui la ricostruzione giudiziaria. Ma una cosa, nell'autodifesa di Tiziana Scarlino, è assolutamente vera: c'è ancora un grado di giudizio, la cassazione, che potrebbe ribaltare un'altra volta il punto dell'aggravante mafiosa. Una corte, l'ultima, potrebbe rovesciare defitivamente la lettura di quello che successe in quel lontano 2002 e quindi quello che sta succedendo oggi tra i rifiuti di Otranto e le prefetture di mezza Italia. D'altronde l'appello ha già sconfessato il primo grado e pare che in cassazione Gianluigi Rosafio si stia attrezzando con i migliori penalisti sulla piazza nazionale. E se quel verdetto cambiasse tutto? O se anche non cambiasse nulla, non è comunque giusto ascoltare chi si professa innocente? Ecco il perché della proposta finale

le propongo un'intervista in cui lei possa dire tutto quello che, a suo parere, discolpa e giustifica lei e suo marito e possa rispondere a tutte le domande e i dubbi che legittimamente le porrò: accetta?

Una proposta che ha ricevuto risposta, qualche ora dopo.

ci ho pensato tutta la notte ...alla fine forse la dovrò anche ringraziare, accetto l'intervista se lei è ancora disponibile...
Sono ancora disponibile: i contatti sono stati avviati e molto presto ascolterete e leggerete tutta intera l'autodifesa della figlia del boss.


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Odor di ecomafia: tremano coop rosse, Confindustria e Pdl

giovedì 19 maggio 2011

Odor di ecomafia: tremano coop rosse, Confindustria e Pdl

C’è una storia, nel tacco d’Italia, che puzza di mafia e spazzatura. La storia di un appalto che pochi raccontano perché non piace a nessuno. Non piace alla sinistra perché uno dei vincitori dell’appalto è un colosso della cooperazione rossa, cara a Pierluigi Bersani. Non piace alla destra perché l’appalto è stato assegnato dall’ente guidato da uno dei più promettenti pupilli di Raffaele Fitto. Non piace alla Confindustria perché l’altro vincitore dell’appalto è uno dei soci pugliesi di Emma Marcegaglia. E non piace al sindacato perché al tavolo delle trattative si sono seduti senza troppo imbarazzo anche dirigenti delle organizzazioni dei lavoratori.

L’appalto è quello per la gestione dei rifiuti nei 21 comuni dell’entroterra di Otranto, qualcosa come 60 milioni di euro in 9 anni. Mica spiccioli. Spazzatura maleodorante che si traduce in banconote fruscianti: peccato che ci siano anche gli uomini della sacra corona unita tra i re Mida che trasformano la monnezza in oro, secondo le informative dei carabinieri e le interdittive della prefettura. La quarta mafia che in riva all’Adriatico sarebbe riuscita a fare il salto e a passare dalle estorsioni e dal traffico di droga al business milionario dei rifiuti.

La storia è questa: nel 2009 l’Ato Lecce 2, presieduta da Silvano Macculi, astro ascendente del Pdl salentino, bandisce una gara d’appalto per la gestione e la raccolta dei rifiuti nell’Aro 6, una delle fette in cui è suddivisa la torta della spazzatura in provincia di Lecce. A vincere la gara è l’associazione temporanea di imprese tra la Lombardi Ecologia e il Cns. Chi sono?

Lombardi Ecologia è una storica impresa ambientale con sede a Conversano: Rocco Lombardi, il suo titolare, è cavaliere del lavoro e, da quando i Marcegaglia sono diventati i padroni di tutte le discariche e gli impianti pugliesi, è socio in diverse attività del gruppo della presidente di Confindustria. Tanto che, forse per un caso o forse grazie a questa consolidata amicizia, i principali affari della Lombardi fuori Puglia sono in provincia di Mantova, patria dei Marcegaglia.


Cns, invece, sta per Consorzio nazionale servizi. Un gigante che raggruppa 230 imprese e nel 2009 ha fatturato poco meno di 600 milioni di euro (quasi 50 in Puglia) e ha sede a Bologna, in via della Cooperazione. Non a caso: il Cns aderisce alla Lega delle cooperative, l’organizzazione delle coop rosse che non solo in Emilia è l’architrave economico del mondo che ieri si riconosceva nel Pci e oggi nel Pd.


Due imprese diversissime che si ritrovano insieme nella gara per gestire la spazzatura dell’Aro 6: con queste credenziali, ovviamente, vincono a mani basse. L’ati Lombardi-Cns, però, decide di non mettere le mani direttamente nella monnezza di Otranto: creano una società figlia, chiamata Menhir. Con una spartizione meticolosa della torta: 55% a Lombardi (che quindi comanda), 45% a Cns (che quindi guadagna). Potevano farlo? Qualche dubbio c’è, tanto più che il Cns delega la sua quota prima a una consorziata bolognese, che però rifiuta, e poi all’unica cooperativa locale, la Supernova. Ma non è questo il punto.

Il punto finito sotto la lente di carabinieri e prefettura è che la Menhir, come il capitolato le impone, assume gli spazzini che già erano al lavoro nei 21 comuni prima del nuovo appalto. E poi fa delle assunzioni ex novo: e tra i nuovi assunti, arrivano nella Menhir anche Tiziana Luce Scarlino e Gianluigi Rosafio.

Tiziana Scarlino ha un cognome pesante, da queste parti: è la figlia di Giuseppe Scarlino, il boss della sacra corona unita di Taurisano affiliato al clan Tornese di Monteroni e che tutti conoscono come Pippi Calamita. Il boss del capo di Leuca è in carcere da quasi vent’anni: «fine pena mai», la sua condanna. Così non ha potuto neanche accompagnare all’altare sua figlia Tiziana, quando si è sposata con Gianluigi Rosafio. Uniti nella buona e nella cattiva sorte, anche giudiziaria: marito e moglie sono finiti sotto processo per traffico illecito di rifiuti per una serie di reati commessi tra il 2002 e il 2003. Anche grazie alla copertura di qualche carabiniere corrotto, pericolosi reflui industriali e putridi liquami di fogna venivano smaltiti contro legge. In impianti di depurazione inadeguati, in discariche che non potevano riceverli; in qualche caso addirittura scaricati in campagna o in pozzi che andavano ad avvelenare la falda acquifera.
Un’organizzazione perfetta che coinvolgeva 48 persone, secondo la ricostruzione del sostituto procuratore dell’antimafia di Lecce Elsa Valeria Mignone. Sulle sue accuse si sono espressi due tribunali: in primo grado 15 condanne e 33 prescrizioni, tra le quali anche due carabinieri. I giudici però bocciarono l’aggravante mafiosa chiesta per Rosafio.
Che è rispuntata, invece, in appello nel febbraio scorso: tutti prescritti i reati, anche per Tiziana Scarlino e Roberto Gugliandolo (l’unico carabiniere, ormai ex, condannato in primo grado per corruzione). Tutti, tranne quelli di Rosafio: ad aggravare il suo comportamento c’era la condotta mafiosa, cioè l’aver fatto pesare la sua parentela con Pippi Calamita, quel suocero in carcere il cui nome ancora spaventa, per convincere le aziende concorrenti a tirarsi fuori dal mercato degli smaltimenti, a lasciarne il monopolio a Rosafio.

È tempo di ritornare all’appalto che pochi raccontano, alla storia della spazzatura nell’entroterra di Otranto appaltata dall’Ato di centrodestra al colosso rosso e ai soci della Marcegaglia. Dal matrimonio di interesse nasce la Menhir, che assume Gianluigi Rosafio e Tiziana Scarlino. Non semplici dipendenti,ma veri e propri dirigenti inquadrati con alti livelli e con una busta paga bella pesante, da diverse migliaia di euro al mese. Addirittura gestori di fatto, assicurano i carabinieri. Anche perché alle riunioni dell’Ato marito e moglie si presentavano al fianco di Rocco Lombardi per trattare condizioni del servizio e pagamenti dei dipendenti. Qualche sindacalista più accorto (e che anche per questo preferisce l’anonimato) racconta dell’imbarazzo nel trovarsi gomito a gomito allo stesso tavolo con la figlia e il genero di Pippi Calamita: «ma la controparte non si sceglie», è la giustificazione.

Sta di fatto che la Menhir non naviga in buone acque: il servizio costa, eppure i sindaci dei 21 comuni non sono soddisfatti. Ancor meno lo sono i dipendenti, che periodicamente vanno in agitazione perché gli stipendi arrivano con il contagocce. E meno ancora lo sono i burocrati, ai quali il marchingegno della società figlia che prende il posto delle due società vincitrici non è mai piaciuto.

Così Lombardi e Cns ai primi di marzo sciolgono la Menhir e si riprendono le quote; un mese prima la Supernova, cioè la cooperativa salentina delegata dal Cns nella gestione dell’appalto, aveva tolto il disturbo restituendo la patata bollente alla casa madre bolognese. Troppo tardi: il prefetto di Lecce Mario Tafaro, su richiesta di alcuni enti nei quali Supernova aveva vinto degli appalti, interpella il comandante dei carabinieri Maurizio Ferla e il capo del reparto operativo, Salvo Gagliano, e emette un’interdittiva antimafia. Le analisi del sangue non convincono: i virus della Scu potrebbero aver infettato anche la coop salentina, troppo vicina per un periodo ai «portatori sani» Rosafio e Scarlino.

Per la Supernova è un disastro economico: interdittiva antimafia significa niente appalti con la pubblica amministrazione. E per una cooperativa di servizi, specialmente di pulizie, vedersi sbarrare le porte di ospedali e uffici equivale alla morte imprenditoriale. Vedremo che esito avranno i ricorsi penali, affidati a Stefano De Francesco, e amministrativi, curati da Gianluigi Pellegrino. Ma intanto il meccanismo si è messo in moto e la vicenda Supernova sembra essere la prima tessera di un domino dirompente.

Perché l’Ato, risvegliato all’improvviso dal torpore, si è messo in moto. E quando al protocollo è arrivata una nuova delega di Cns, che da Supernova passava le sue quote ad un’altra cooperativa (che si chiama Anci e ha sede anch’essa nel bolognese) ha preso le carte dell'appalto milionario e le ha inviate alle prefettura di mezza Italia. A quella di Bologna, nella cui provincia hanno sede sia Cns che Anci; a quella di Bari, competente per la Lombardi Ecologia; ma anche a quella di Lecce: una richiesta, quest'ultima, che gli stessi consulenti dell'Ato definiscono «un po' atipica», ma opportuna sia perché l'appalto si svolge in provincia di Lecce sia «per un aiuto più generale in una materia tanto delicata come quella delle infiltrazioni mafiose nel ciclo dei rifiuti».

Le risposte si attendono nelle prossime settimane. Ma se tanto ci dà tanto, Supernova, impresa delegata dal socio di minoranza, è stata ritenuta a rischio di infiltrazioni criminali. Che risposte ci si deve aspettare sul Cns, ovvero il socio di minoranza che l’ha delegata? E che risposte sul socio di maggioranza, ovvero quel cavalier Lombardi che si presentava alle trattative tra Gianluigi Rosafio e Tiziana Scarlino? Quali che siano queste risposte, arriveranno presto. E la storia dell’appalto che puzza di mafia e spazzatura che in pochi raccontano potrebbe terremotare il gigante rosso e i soci della Marcegaglia, pezzi da novanta dell’economia di Puglia e d’Italia.



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