domenica 29 maggio 2011

Vecchi reati e nuova EcoMafia, parla la figlia del Boss

Non c'è molto da aggiungere alle parole di Tiziana Luce Scarlino, la figlia del boss di Taurisano noto come Pippi Calamita e dipendente dell'ati Lombardi-Cns, che gestisce l'appalto per i rifiuti nell'aro 6 dell'ato Lecce 2: 60 milioni di euro in nove anni. Il sospetto dei carabinieri, avvalorato da un'interdittiva antimafia della prefettura di Lecce e che gestori di fatto e soci occulti dell'appalto milionario fossero proprio Tiziana Scarlino insieme al marito Gianluigi Rosafio, condannato per smaltimento illecito di rifiuti aggravato da comportamenti mafiosi. "Ma i miei reati sono prescritti, non voglio pagare per le mie parentele" è l'autodifesa di Tiziana Scarlino nell'intervista andata in onda all'interno del TrNews Mattina di TeleRama il 28 maggio.



A mio avviso rimangono però inevase alcune domande che pesano, non solo quelle sul passato, ma anche e soprattutto sul presente: come mai la Lombardi Ecologia assume proprio i due coniugi al vertice della gestione dell'immondizia? Chi comandava davvero nell'appalto milionario dei rifiuti di Otranto? Le risposte offerte da Tiziana Scarlino non mi paiono del tutto convincenti.

Ma l'intervista solleva anche altre questioni che riguardano il dibattito pubblico.

Prima questione: le interdittive antimafia. Non sono garantiste, perché puntano a prevenire i reati prima che siano commessi. Da un lato la legge dovrebbe colpire gli atti, non le intenzioni; dall'altro lato è forse più giusto piangere sul latte, una volta versato? La risposta a voi.

Seconda questione: la prescrizione. La signora Scarlino la invoca (giustamente) e ricorda che in base ad essa è una persona incensurata.
E' la legge, non l'ho scritta io. Evidentemente erano reati minori
I liquami sversati nelle campagne, i reflui che hanno contaminato la falda, gli scarti illecitamente smaltiti in discarica sono considerati dalla Repubblica Italiana reati minori: non sarà il caso di farci un esame di coscienza? La risposta a voi.

Terza questione, forse la più importante: durante la trasmissione del 28 maggio, aperta come sempre alle opinioni di chi assiste, è arrivata la telefonata di un telespettatore. Qual era l'opinione? Che il tanto vituperato Pippi Calamita tutto sommato tanto cattivo non era: nel suo paese, Taurisano, ma anche in tutta l'area del Capo di Leuca ha sostenuto e aiutato molte persone. E lo Stato come ha ripagato quel benefattore? Con condanne e sequestri, anche confiscando la fabbrica che Scarlino possedeva sulla Gallipoli-Leuca, all'altezza di Salve.

Una bestemmia: quella fabbrica arrivò nelle mani del boss di Taurisano tramite uno dei peggiori strozzinaggi che siano stati provati in un'aula di tribunale, come potrete approfondire qui. Una bestemmia che però la dice lunga non solo sulla capacità della criminalità organizzata di mangiarsi l'economia sana, magari aiutata da qualche funzionario marcio annidato negli istituti di credito. Ma la dice lunga soprattutto sul consenso sociale che ha sostenuto la sacra corona unita, sull'acqua nella quale nuotava lo squalo della Scu. Non è arrivato il momento di rompere quel consenso? La risposta a voi.

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Un laboratorio sociale tra le bambole della Scu

Un laboratorio sociale tra le bambole della Scu

di Danilo Lupo
Dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 20 marzo 2011

Da tana della «tigre» a laboratorio dei mestieri: una metamorfosi difficile e lenta ma che potrebbe portare alla rinascita di uno dei più grandi beni strappato alla Sacra corona unita in provincia di Lecce. Un passo importante è stato compiuto negli ultimi giorni con la presentazione in Prefettura del progetto presentato dal Comune di Salve: l’obiettivo è ottenere dai fondi del Pon sicurezza i due milioni di euro con i quali il Comune potrà ristrutturare gli oltre 7mila metri cubi che il clan Scarlino riuscì a realizzare grazie all’usura.

La grande fabbrica tessile confiscata alla criminalità organizzata spunta tra gli oleandri della statale che da Ugento porta a Leuca, all’altezza della zona industriale di Salve. Attraverso i rami di un fico spoglio che si è impadronito della facciata si legge ancora la scritta tracciata vent’anni fa per specificare chi fosse il nuovo padrone dell’azienda: Scarlino Luciana, la figlia di Giuse ppe, il boss di Taurisano noto come «Pippi Calamita».

La sua società si chiamava «Tigre srl» e aveva preso il posto di quella dell’imprenditore di Presicce Ivano Paiano, la «Marta confezioni srl», che nei due capannoni di Salve fabbricava bambole di stoffa per conto terzi: un’attività esposta alle fluttuazioni del mercato e degli ordini.

La storia? Eccola. Quando Paiano si trova in difficoltà si rivolge alla sua banca: il funzionario, stando alle ricostruzioni degli inquirenti, da un lato gli nega il prestito ma dall’altro lo mette in contatto con il clan Scarlino. Saranno i 29 milioni di lire prestati direttamente da «Pippi Calamita» a rovinare Paiano, che nell’arco di pochi anni dovrà firmare assegni per 60 milioni e infine cedere la sua attività alla figlia del boss e alla sua «Tigre srl».

Un’usura da capogiro, sancita definitivamente il 12 marzo 1997 dalla corte d’Appello di Lecce che comminò 33 anni di carcere a sei componenti della famiglia Scarlino, dal capobastone Giuseppe alla figlia Luciana. Avranno una storia più tortuosa i capannoni passati da Paiano al clan, confiscati definitivamente solo nel 2001 e assegnati al Comune di Salve sette anni dopo, il 24 luglio 2008. Nel frattempo l’abbandono manda in rovina un’attività economica nella quale lavorano non meno di cinquanta persone, tra operai e impiegati, e gli oltre mille metri quadri di copertura in amianto dei due capannoni si sfarinano lentamente, trasformando la fabbrica sulla statale 274 in una bomba ecologica.

Proprio da qui parte il progetto del Comune di Salve: la sostituzione del tetto in amianto della fabbrica con nuovi tetti in regola con la normativa ambientale è il primo passo (e uno dei più costosi) del progetto discusso il 14 febbraio dal sindaco Vincenzo Passaseo assieme a Beatrice Mariano, il capo di gabinetto del prefetto Mario Tafaro. L’idea è di fare del grande immobile un «centro laboratoriale polifunzionale dei mestieri»: in pratica i ragazzi a rischio (di età compresa tra i 14 e i 21 anni) segnalati dai servizi sociali comunali della zona e dal tribunale dei minori troveranno nell’ex fabbrica del capoclan di Taurisano un luogo dove apprendere abilità artigianali: dall’arte della ceramica a quella della cartapesta, dal verde alla grafica, fino all’edilizia tipica, effettuando per quest’ultima esercitazioni pratiche nella «pajara» diroccata che sorge all’interno dei circa 4mila metri quadri di parco che circonda l’immobile.

Il progetto prevede anche la cucina e la sala mensa, quattro camere che possono ospitare complessivamente dieci persone, un’area relax e biblioteca, un’area ricreativa con angolo bar, ma anche una grande sala conferenze, evidentemente pensata anche per essere a disposizione della comunità di Salve per iniziative e manifestazioni. Per finire con le spese necessarie per gli impianti idrico, fognante, elettrico, di riscaldamento, elettrico e antincendio, ormai inservibili dopo vent’anni di abbandono. Totale del finanziamento richiesto: due milioni di euro, la cifra ritenuta necessaria per trasformare il frutto dell’usura in una struttura di recupero al servizio di un’intera comunità.

photocredits: TeleRama

Aggiornamento: accordato il finanziamento di due milioni di euro dal Ministero dell'Interno al Comune di Salve. La rinascita della fabbrica delle bambole può diventare realtà.



giovedì 26 maggio 2011

Teppisti cromatici/3: il fungo di Acquarica

"e allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte 'e manifestazioni e ste fessarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. è importante la bellezza: da quella scende giù tutto il resto" (i 100 passi)

Personalissima rassegna della piccola bottega degli orrori stilistici salentini: colori incongrui, scelte infelici o semplici pugni nell'occhio che gonfiano di pinnacoli moreschi e sciabolate cromatiche il volto di una terra perfetta nella sua semplicità.

Terzo teppista: il fungo di Acquarica

La pioggia, si sa, fa spuntare i funghi. Ma che i funghi contengano l'acqua questo no, non si sapeva. Invece succede ad Acquarica del Capo: la prima delle vostre segnalazioni sui teppisti cromatici in giro per la provincia arriva da Francesca Pizzolante. Che tornando a casa sua, si è vista spuntare davanti questo colossale cardoncello bianco, finemente (?) screziato.

Si dovrebbe trattare di una sorta di imbuto per la raccolta delle acque piovane; ma a parte i dubbi sull'utilità del fungo raccoglipioggia, la domanda è: quanto sarà stato pagato il progettista che ha "decorato" con questo oggetto misterioso, a metà tra il sarchiapone di Walter Chiari e un pleurotus albino, l'ingresso (come vedete qui) di Acquarica del Capo?

Appendice dedicata a una seconda segnalazione, stavolta in positivo: una settimana dopo il pezzo sul Sedile comandacolore, Rocco Longo ha scattato le foto che vedete qui. Il monumento cinquecentesco è tornato ad una (più) sobria illuminazione candida. Non sappiamo se per scelta dell'assessore Alfarano (e chissà quanto gli sarà costato non accendere i neon giallorossi nel sedile durante la festa della salvezza del Lecce) o semplicemente perchè questo, come accadeva su Postalmarket, è il mese del bianco.














Teppisti cromatici da segnalare? danilo976@libero.it o "Danilo Lupo" su fb

martedì 24 maggio 2011

"Io, figlia del Boss: e allora?"

Non è piaciuta a tutti, la storia dell'appalto che puzza di spazzatura e di mafia che pochi raccontano. Non al presidente Pdl dell'Ato, il primo a farsi sentire. Forse neanche alla coop rossa e al socio della Marcegaglia, che si giocano una partita delicata quaggiù nel tacco d'Italia. Soprattutto non è piaciuta alla figlia del boss, che ci ha tenuto a farlo sapere, con una autodifesa accorata e argomentata. E si capisce perché: la storia dell'appalto dei rifiuti nell'entroterra di Otranto non era raccontata in modo tenero. E neanche neutro. Era approfondita, nella volontà di capire quali e quanti sono gli interessi dentro la nostra pattumiera quotidiana, gli affari che si muovono in superficie, a pelo d'acqua ma anche al di là dello specchio.

A Silvano Macculi, presidente Pdl dell'Ato Lecce 2, quella storia non è piaciuta. E ha voluto far sapere subito due cose.

La prima: che il Pdl non c'entra nulla perché non governa l'Ambito territoriale ottimale che decide le sorti (e gli appalti) della spazzatura nel centro della provincia; certo, lui ne è presidente, ma è maggioranza il centrosinistra. A dire il vero nell'organo di governo dell'Ato le proporzioni tra i sindaci sono più complicate: 8 centrosinistra, 8 centrodestra più la centrista Ada Fiore. Un equilibrio così delicato, che alla fine a decidere è il presidente, cioè lo stesso Macculi grazie anche allo statuto che ne blinda la postazione e le funzioni. Ed è giusto che sia così: esporre un organismo composto da più di 40 campanili a continui ribaltoni politici sarebbe stato letale. E però è un fatto che il presidente dell'Ato Lecce 2 sia l'asso di briscola nella gestione dei rifiuti da queste parti. Ed è un fatto anche che sia un astro ascendente del Pdl salentino.

La seconda: che lui ha tenuto gli occhi ben aperti su quell'appalto, tanto da aver chiesto subito (com'è previsto dalla legge) la certificazione antimafia sulle ditte vincitrici, ovvero Lombardi Ecologia e Cns. E che fin da subito ha iniziato a contestare le pecche della Menhir (la società figlia di Lombardi Ecologia e Cns) nella raccolta dei rifiuti. E ha tenuto gli occhi aperti anche riservatamente, senza troppi strepiti ufficiali. Questo dice Macculi e non c'è motivo di non credergli. Va però detto anche che chi ha guardato storto fin dal primo momento la società figlia che aveva preso il posto delle due società madri erano i burocrati degli uffici. E che la certificazione antimafia è stata richiesta quando l'appalto da 60 milioni è stato assegnato: ma i problemi sono nati subito dopo, con l'assunzione di Gianluigi Rosafio e Tiziana Scarlino, le due figure intorno alle quali ruota l'interdittiva antimafia della prefettura. Se virus criminale c'è, è arrivato dopo le analisi del sangue.

Non è noto se la storia sia piaciuta al Cns, il colosso della cooperazione rossa con sede bolognese, e alla Lombardi Ecologia, la ditta barese partner negli affari del gruppo Marcegaglia in terra pugliese. Non è noto ma una cosa è certa: tra le visite internet registrate da questo blog nel periodo di pubblicazione di quel pezzo, 88 sono venute da Bari e 12 da Bologna. Chissà che di qualche visita non va ringraziata qualcuna delle ditte in ballo?

Di sicuro chi ha visitato questo blog e letto quella storia, è stato uno dei protagonisti della storia stessa: Tiziana Luce Scarlino, moglie di Gianluigi Rosafio e figlia di Giuseppe Scarlino, il boss della Scu di Taurisano. Perché ripeterle, queste parentele? Perchè il cuore dell'interdittiva antimafia è tutto lì: una sentenza d'appello del febbraio scorso ha stabilito che Rosafio ha inquinato terra e acqua sversando rifiuti dopo aver fatto piazza pulita dei concorrenti con modalità mafiose. Facendo pesare quella parentela: era il genero di Pippi Calamita, sposato con la figlia del boss.
Egregio sig. Lupo, LA FIGLIA DI UN BOSS non puo lavorare??????????Siamo in un paese con repubblica democratica nella quale le figlie dei Boss hanno diritto a lavorare, sopratutto quando lo fanno onestamente e con il prorio sudore. Come per altro accade per i giornalisti e i dirigenti sindacali...diritto di lavorare per tutti.
Oltretutto vorrei capire se essere la figlia di una persona definita BOSS che sconta la sua pena è una colpa o un reato???
Così ha commentato l'articolo che la riguardava Luciana Scarlino: un'autodifesa accorata e argomentata, dicevamo. E che non ha risparmiato quei sindacalisti che avevano raccontato di un certo imbarazzo al momento di sedersi al tavolo di trattativa con genero e figlia di Pippi Calamita.

Poi vorrei precisare a tutti voi sindacati se avevate imbarazzo a sedersi accanto alla mia persona, se avvertivate lo stesso disagio quando interloquivate con me in quanto dipendente per chiedere l'assunzione dei propri dirigenti sindacali o favoritismi ai propri iscritti....semmai se di disagio può parlare questi sindacati...potevano avere il disagio nei miei confronti solo per il confronto intellettuale..Questo sindacato se tale si può definire, dovrebbe tutelare i propri lavoratori iscritti anzichè fare terrorismo a spese delle persone che lavorano.
Infine una precisazione e una richiesta, rivolta a chi ha raccontato quella storia:

Fa comodo menzionare atti processuali ancora in corso che non mi vedono condannata definitivamente e comunque non per reati di mafia. Vorrei dargli la mia iscrizione sindacale...o è troppo razzista per accettarla???sig.Lupo mi auguro che queste parole la facciano riflettere,Per continuare a credere di vivere in uno stato di diritto mi auguro che si faccia piena luce su quanto mi avete ingiustamente attribuito.
Riflettere è sempre giusto: nessuno ha da spiegare verità piegate in tasca, in un blog, da una tv o su un giornale. Ma per arrivare a verità provvisorie e relative non si può che approfondire le decisioni dei giudici, cioè gli uomini ai quali lo stato (ovvero noi) ha delegato il compito di ascoltare accuse e analizzare difese, interrogare testimoni e esaminare prove. Per poi prendere decisioni, che non sono perfette ma sono le uniche legittime.
Gentile signora Scarlino, una premessa: razzista è esattamente l'ultima cosa che mi sento di essere. se non altro perchè sono figlio e nipote di emigranti e quindi so quanto il sospetto e il pregiudizio possano pesare, anche ingiustamente. ma qui non si tratta di pregiudizi, bensì di giudizi: come lei sa meglio di me, il primo grado del processo l'ha vista condannata per i reati contestati, mentre nel secondo grado è intervenuta la prescrizione: il che non equivale ad assoluzione ma comunque fa di lei - questo è bene sottolinearlo - una persona incensurata. la legge è legge, mi sono permesso di dire a chi polemizzava con quella prescrizione. ma la legge è legge anche quando riguarda le interdittive antimafia che, com'è noto, sono un atto cautelare: cioè non servono a punire dei reati ma a prevenirli. sono d'accordo: non è una colpa o un reato essere la figlia di un boss, ma i reati se mai sono stati commessi (stando a quanto stabilito nei primi due gradi di giudizio) smaltendo rifiuti in maniera illecita: è un precedente che merita attenzione oppure no? ancora una volta ribadisco: l'aggravante mafiosa riguarda solo e soltanto suo marito e solo e soltanto nel secondo grado di giudizio, mentre nel primo grado altri giudici non l'hanno ritenuta fondata. ad oggi, però, la realtà è quella di una condanna d'appello con l'articolo 7 delle aggravanti mafiose del reato commesso.
Fin qui la ricostruzione giudiziaria. Ma una cosa, nell'autodifesa di Tiziana Scarlino, è assolutamente vera: c'è ancora un grado di giudizio, la cassazione, che potrebbe ribaltare un'altra volta il punto dell'aggravante mafiosa. Una corte, l'ultima, potrebbe rovesciare defitivamente la lettura di quello che successe in quel lontano 2002 e quindi quello che sta succedendo oggi tra i rifiuti di Otranto e le prefetture di mezza Italia. D'altronde l'appello ha già sconfessato il primo grado e pare che in cassazione Gianluigi Rosafio si stia attrezzando con i migliori penalisti sulla piazza nazionale. E se quel verdetto cambiasse tutto? O se anche non cambiasse nulla, non è comunque giusto ascoltare chi si professa innocente? Ecco il perché della proposta finale

le propongo un'intervista in cui lei possa dire tutto quello che, a suo parere, discolpa e giustifica lei e suo marito e possa rispondere a tutte le domande e i dubbi che legittimamente le porrò: accetta?

Una proposta che ha ricevuto risposta, qualche ora dopo.

ci ho pensato tutta la notte ...alla fine forse la dovrò anche ringraziare, accetto l'intervista se lei è ancora disponibile...
Sono ancora disponibile: i contatti sono stati avviati e molto presto ascolterete e leggerete tutta intera l'autodifesa della figlia del boss.


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giovedì 19 maggio 2011

Odor di ecomafia: tremano coop rosse, Confindustria e Pdl

C’è una storia, nel tacco d’Italia, che puzza di mafia e spazzatura. La storia di un appalto che pochi raccontano perché non piace a nessuno. Non piace alla sinistra perché uno dei vincitori dell’appalto è un colosso della cooperazione rossa, cara a Pierluigi Bersani. Non piace alla destra perché l’appalto è stato assegnato dall’ente guidato da uno dei più promettenti pupilli di Raffaele Fitto. Non piace alla Confindustria perché l’altro vincitore dell’appalto è uno dei soci pugliesi di Emma Marcegaglia. E non piace al sindacato perché al tavolo delle trattative si sono seduti senza troppo imbarazzo anche dirigenti delle organizzazioni dei lavoratori.

L’appalto è quello per la gestione dei rifiuti nei 21 comuni dell’entroterra di Otranto, qualcosa come 60 milioni di euro in 9 anni. Mica spiccioli. Spazzatura maleodorante che si traduce in banconote fruscianti: peccato che ci siano anche gli uomini della sacra corona unita tra i re Mida che trasformano la monnezza in oro, secondo le informative dei carabinieri e le interdittive della prefettura. La quarta mafia che in riva all’Adriatico sarebbe riuscita a fare il salto e a passare dalle estorsioni e dal traffico di droga al business milionario dei rifiuti.

La storia è questa: nel 2009 l’Ato Lecce 2, presieduta da Silvano Macculi, astro ascendente del Pdl salentino, bandisce una gara d’appalto per la gestione e la raccolta dei rifiuti nell’Aro 6, una delle fette in cui è suddivisa la torta della spazzatura in provincia di Lecce. A vincere la gara è l’associazione temporanea di imprese tra la Lombardi Ecologia e il Cns. Chi sono?

Lombardi Ecologia è una storica impresa ambientale con sede a Conversano: Rocco Lombardi, il suo titolare, è cavaliere del lavoro e, da quando i Marcegaglia sono diventati i padroni di tutte le discariche e gli impianti pugliesi, è socio in diverse attività del gruppo della presidente di Confindustria. Tanto che, forse per un caso o forse grazie a questa consolidata amicizia, i principali affari della Lombardi fuori Puglia sono in provincia di Mantova, patria dei Marcegaglia.


Cns, invece, sta per Consorzio nazionale servizi. Un gigante che raggruppa 230 imprese e nel 2009 ha fatturato poco meno di 600 milioni di euro (quasi 50 in Puglia) e ha sede a Bologna, in via della Cooperazione. Non a caso: il Cns aderisce alla Lega delle cooperative, l’organizzazione delle coop rosse che non solo in Emilia è l’architrave economico del mondo che ieri si riconosceva nel Pci e oggi nel Pd.


Due imprese diversissime che si ritrovano insieme nella gara per gestire la spazzatura dell’Aro 6: con queste credenziali, ovviamente, vincono a mani basse. L’ati Lombardi-Cns, però, decide di non mettere le mani direttamente nella monnezza di Otranto: creano una società figlia, chiamata Menhir. Con una spartizione meticolosa della torta: 55% a Lombardi (che quindi comanda), 45% a Cns (che quindi guadagna). Potevano farlo? Qualche dubbio c’è, tanto più che il Cns delega la sua quota prima a una consorziata bolognese, che però rifiuta, e poi all’unica cooperativa locale, la Supernova. Ma non è questo il punto.

Il punto finito sotto la lente di carabinieri e prefettura è che la Menhir, come il capitolato le impone, assume gli spazzini che già erano al lavoro nei 21 comuni prima del nuovo appalto. E poi fa delle assunzioni ex novo: e tra i nuovi assunti, arrivano nella Menhir anche Tiziana Luce Scarlino e Gianluigi Rosafio.

Tiziana Scarlino ha un cognome pesante, da queste parti: è la figlia di Giuseppe Scarlino, il boss della sacra corona unita di Taurisano affiliato al clan Tornese di Monteroni e che tutti conoscono come Pippi Calamita. Il boss del capo di Leuca è in carcere da quasi vent’anni: «fine pena mai», la sua condanna. Così non ha potuto neanche accompagnare all’altare sua figlia Tiziana, quando si è sposata con Gianluigi Rosafio. Uniti nella buona e nella cattiva sorte, anche giudiziaria: marito e moglie sono finiti sotto processo per traffico illecito di rifiuti per una serie di reati commessi tra il 2002 e il 2003. Anche grazie alla copertura di qualche carabiniere corrotto, pericolosi reflui industriali e putridi liquami di fogna venivano smaltiti contro legge. In impianti di depurazione inadeguati, in discariche che non potevano riceverli; in qualche caso addirittura scaricati in campagna o in pozzi che andavano ad avvelenare la falda acquifera.
Un’organizzazione perfetta che coinvolgeva 48 persone, secondo la ricostruzione del sostituto procuratore dell’antimafia di Lecce Elsa Valeria Mignone. Sulle sue accuse si sono espressi due tribunali: in primo grado 15 condanne e 33 prescrizioni, tra le quali anche due carabinieri. I giudici però bocciarono l’aggravante mafiosa chiesta per Rosafio.
Che è rispuntata, invece, in appello nel febbraio scorso: tutti prescritti i reati, anche per Tiziana Scarlino e Roberto Gugliandolo (l’unico carabiniere, ormai ex, condannato in primo grado per corruzione). Tutti, tranne quelli di Rosafio: ad aggravare il suo comportamento c’era la condotta mafiosa, cioè l’aver fatto pesare la sua parentela con Pippi Calamita, quel suocero in carcere il cui nome ancora spaventa, per convincere le aziende concorrenti a tirarsi fuori dal mercato degli smaltimenti, a lasciarne il monopolio a Rosafio.

È tempo di ritornare all’appalto che pochi raccontano, alla storia della spazzatura nell’entroterra di Otranto appaltata dall’Ato di centrodestra al colosso rosso e ai soci della Marcegaglia. Dal matrimonio di interesse nasce la Menhir, che assume Gianluigi Rosafio e Tiziana Scarlino. Non semplici dipendenti,ma veri e propri dirigenti inquadrati con alti livelli e con una busta paga bella pesante, da diverse migliaia di euro al mese. Addirittura gestori di fatto, assicurano i carabinieri. Anche perché alle riunioni dell’Ato marito e moglie si presentavano al fianco di Rocco Lombardi per trattare condizioni del servizio e pagamenti dei dipendenti. Qualche sindacalista più accorto (e che anche per questo preferisce l’anonimato) racconta dell’imbarazzo nel trovarsi gomito a gomito allo stesso tavolo con la figlia e il genero di Pippi Calamita: «ma la controparte non si sceglie», è la giustificazione.

Sta di fatto che la Menhir non naviga in buone acque: il servizio costa, eppure i sindaci dei 21 comuni non sono soddisfatti. Ancor meno lo sono i dipendenti, che periodicamente vanno in agitazione perché gli stipendi arrivano con il contagocce. E meno ancora lo sono i burocrati, ai quali il marchingegno della società figlia che prende il posto delle due società vincitrici non è mai piaciuto.

Così Lombardi e Cns ai primi di marzo sciolgono la Menhir e si riprendono le quote; un mese prima la Supernova, cioè la cooperativa salentina delegata dal Cns nella gestione dell’appalto, aveva tolto il disturbo restituendo la patata bollente alla casa madre bolognese. Troppo tardi: il prefetto di Lecce Mario Tafaro, su richiesta di alcuni enti nei quali Supernova aveva vinto degli appalti, interpella il comandante dei carabinieri Maurizio Ferla e il capo del reparto operativo, Salvo Gagliano, e emette un’interdittiva antimafia. Le analisi del sangue non convincono: i virus della Scu potrebbero aver infettato anche la coop salentina, troppo vicina per un periodo ai «portatori sani» Rosafio e Scarlino.

Per la Supernova è un disastro economico: interdittiva antimafia significa niente appalti con la pubblica amministrazione. E per una cooperativa di servizi, specialmente di pulizie, vedersi sbarrare le porte di ospedali e uffici equivale alla morte imprenditoriale. Vedremo che esito avranno i ricorsi penali, affidati a Stefano De Francesco, e amministrativi, curati da Gianluigi Pellegrino. Ma intanto il meccanismo si è messo in moto e la vicenda Supernova sembra essere la prima tessera di un domino dirompente.

Perché l’Ato, risvegliato all’improvviso dal torpore, si è messo in moto. E quando al protocollo è arrivata una nuova delega di Cns, che da Supernova passava le sue quote ad un’altra cooperativa (che si chiama Anci e ha sede anch’essa nel bolognese) ha preso le carte dell'appalto milionario e le ha inviate alle prefettura di mezza Italia. A quella di Bologna, nella cui provincia hanno sede sia Cns che Anci; a quella di Bari, competente per la Lombardi Ecologia; ma anche a quella di Lecce: una richiesta, quest'ultima, che gli stessi consulenti dell'Ato definiscono «un po' atipica», ma opportuna sia perché l'appalto si svolge in provincia di Lecce sia «per un aiuto più generale in una materia tanto delicata come quella delle infiltrazioni mafiose nel ciclo dei rifiuti».

Le risposte si attendono nelle prossime settimane. Ma se tanto ci dà tanto, Supernova, impresa delegata dal socio di minoranza, è stata ritenuta a rischio di infiltrazioni criminali. Che risposte ci si deve aspettare sul Cns, ovvero il socio di minoranza che l’ha delegata? E che risposte sul socio di maggioranza, ovvero quel cavalier Lombardi che si presentava alle trattative tra Gianluigi Rosafio e Tiziana Scarlino? Quali che siano queste risposte, arriveranno presto. E la storia dell’appalto che puzza di mafia e spazzatura che in pochi raccontano potrebbe terremotare il gigante rosso e i soci della Marcegaglia, pezzi da novanta dell’economia di Puglia e d’Italia.



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lunedì 16 maggio 2011

Alle comunali un cavallo di "razza"


Le elezioni, si sa, sono tutte uguali. In queste ore vedremo, ascolteremo, leggeremo politici e sondaggisti, opinion leader e politologi spiegare come e perché le grandi coalizioni hanno perso o vinto le amministrative di primavera. Mentre scrivo, il risultato non è ancora delineato: ma se vincerà il centrosinistra, statene certi, Bersani dirà che un governo distratto rispetto alla crisi è ormai alla frutta; se vincerà il centrodestra, Berlusconi dirà che l’eversione giudiziaria non ha incrinato il suo rapporto con la gente. Se si affermerà il terzo polo, Casini dirà che l’Italia è stanca di tutti e due.

Non credetegli.

A decidere i nuovi sindaci non sono né il programma, né i personaggi o i fatti nazionali. Il voto di opinione frutta nelle urne amministrative solo in alcuni grandi centri, ma nel Salento sono andati al voto 36 municipi, che contano oltre 200mila abitanti: come dire una media di 6mila cittadini (e 4mila votanti) per comune . Come si vince o si perde a Patù o a Laterza, a Oria o a Lizzanello, a Cisternino o Avetrana? Un po' per il candidato sindaco: candidati loffi o big col ghiribizzo della fascia tricolore pesano nelle urne, ma neanche troppo (vedi Nardò o Trepuzzi). Un po’ di più conta l’ampiezza della coalizione, perché la grande ammucchiata premia sempre. Ma soprattutto a pesare sono le liste dei candidati consiglieri e come sono state compilate. E qui contano altri criteri pre-politici, una magia bianca di carattere tribale della quale sciamani sono personaggi oscuri ma indispensabili: i compilatori.

Ogni sezione di paese che si rispetti ne aveva uno: appena infarinato nella politica ma ben fritto nell’amministrazione, la sua dote principale è una conoscenza enciclopedica di parentele, comparanze, confraternite, amicizie e quant’altro fa “legame” in una comunità. Perché fa fico avere in lista l’avvocato prestigioso o l’avviato architetto ma non è detto che il cliente, oltre a pagargli la parcella voglia anche dargli il voto.

E allora meglio un candidato con la razza longa, cioè con un ben ramificato albero genealogico che gli permetta di pescare preferenze di zie zitelle, nipoti al primo voto, cugini da sistemare e nonne ben inserite in parrocchia. Diciamoci la verità: la politica è una bella cosa, ma la mamma è sempre la mamma. E infatti, dove non arriva la razza può soccorrere la strazza, ovvero la famiglia della madre: non è il cognome che fa il sangue.

Detto così, sembra facile: basterebbe l’albero genealogico alla mano e la lista è fatta. Ma il compilatore è più bravo di così: nel suo schedario mentale ha anche annotato scrupolosamente i pettegolezzi di paese e le inimicizie che, si sa, possono nascere anche nelle migliori famiglie. “Ma quiddhu sta scannatu cu li frati” è un argomento schiacciante per far cadere una candidatura al momento decisivo: la razza non basta averla, occorre batterla.

Servono poi quelle parentele acquisite coi sacramenti che ti permettono di entrare in case lontane e, tra un battesimo e una cresima, infilare un santino ben più profano nelle mani di sciuscetti e cumpari. O, al limite, essere ben inserito in una confraternita, dall’immancabile circolo degli amici all’onesta associazione degli emigranti fino – ovviamente – alla dirigenza della scuola calcio. Senza dimenticare che una lista non è degna di essere chiamata tale se non ha candidati di ogni quartiere e di ogni frazione o marina sperduta.

Ma nella guerra delle liste c’è posto anche per la magia nera, in agguato c’è lo spauracchio di ogni candidato: la razza spaccata, il più temibile sortilegio del compilatore di lista avversario. Ovvero, un candidato appartenente allo stesso nucleo familiare del concorrente temibile per radicamento sociale o estensione genealogica. “Ma ieu tinìa a razza spaccata”, statene certi, sarà una giustificazione ricorrente del candidato iperpompato alla vigilia ma dal risultato deludente al momento dello scrutinio.

Altro che Br e monnezza, Fiat e primarie: in provincia i primi cittadini vengono eletti così, grazie ai compilatori di lista che azzeccano più tredici nel complicato sistemone genealogico della comunità. Una dote innata e che assomiglia a quella dei rabdomanti, che permette di trovare l’acqua del consenso reale sotto la terra del doveroso affetto familiare. Perché attenzione: anche la razza longa, i buoni rapporti, i mille legami alla fin fine non sono garanzia di successo. Lo insegna la fulminante battuta di Beppe Grillo (la foto di Paride De Carlo lo ritrae nel suo comizio di Nardò), quando di politica satireggiava e ancora non la faceva: "Emilio Fede quando si è presentato alle elezioni per il Psdi ha preso 5 voti. In famiglia sono sei: sta ancora cercando il franco tiratore"



venerdì 13 maggio 2011

Teppisti cromatici/2: Il Sedile comandacolore

"e allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte 'e manifestazioni e ste fessarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. è importante la bellezza: da quella scende giù tutto il resto" (i 100 passi)



Personalissima rassegna della piccola bottega degli orrori stilistici salentini: colori incongrui, scelte infelici o semplici pugni nell'occhio che gonfiano di pinnacoli moreschi e sciabolate cromatiche il volto di una terra perfetta nella sua semplicità.



Secondo teppista: il Sedile di Lecce dopo il restyling.
Per attribuirsene la paternità hanno litigato Adriana Poli Bortone e Paolo Perrone, Massimo Alfarano e Francesca Mariano: forse avrebbero fatto meglio a litigare per attribuirne la paternità all'altra parte.

Passi il candore da restauro appena terminato che lo fa sembrare di polistirolo. Passi anche (ma che fatica...) l'illuminazione drammatica da film neo-gotico e/o semi-horror. Ma quella vaga luminescenza color lampone, che ricorda tanto le mercedes con alettone posteriore e lucette led ai bordi della carena con le quali d'estate vedi scorazzare nei nostri paesi gli oriundi di ritorno dalla Svizzera, quella proprio no!



Il catalogo cromatico - va detto con obiettività - è più ricco di così: in base alle serate si può rimirare il Sedile con un'impegnativa tenuta blu cobalto o in una più sbarazzina mise verde acido.



Chi decida la variante luminosa della serata è un mistero custodito più gelosamente del sacro Graal: sarà l'assessore che comanda colore? Difficile: l'arcitifoso Alfarano avrebbe optato per un giallorosso fisso.
Oh cazzo, speriamo che ora non gli baleni l'idea...


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Finocchi patentati


Per condividere questo post non occorre essere gay. Però un po' aiuta: non per quella peculiare sensibilità che gli omosessuali troppo spesso si auto-attribuiscono (e con la quale troppo spesso si auto-ghettizzano), ma per quella sensazione, acquattata in un angolo del cervello, di avere qualcosa da temere da una nazione ancora troppo ostile.

Quella sensazione, Cristian, probabilmente non ce l'aveva; oppure ha voluto dare fiducia all'Italia, considerarlo un paese civile; o semplicemente non aveva voglia di fare il militare. Così, mentre i suoi coetanei si facevano certificare improbabili soffi al cuore o chiedevano all'amico se usciva ancora con quella ragazza col papà colonnello che poteva far chiudere un occhio, lui si è presentato alla visita di leva e l'ha messa giù semplice semplice: "sono gay: siete voi a non volere me". Visita psicologica nell'ospedale militare, qualche battuta greve sottovoce e qualche sopracciglio alzato per disgusto o commiserazione. Ma Cristian viene esonerato: il risultato è acquisito, la storia è chiusa. O forse no: a raccontare che tanto chiusa non era, almeno per lo Stato italiano, è stata Repubblica nei giorni scorsi.
"Gravi patologie che potrebbero risultare di pregiudizio per la sicurezza della guida". Con queste motivazioni Cristian Friscina, un ragazzo omosessuale di Brindisi, titolare di una patente di guida emessa dalla motorizzazione civile della sua città nel 1999, si è visto negare il rinnovo della patente. La vicenda è stata denunciata dai Radicali, che hanno depositato oggi una interrogazione urgente ai ministri dei Trasporti e della Difesa."
Conosco poco Cristian: un ragazzo normale, poco più che trentenne, che preferisce le dance hall alle discoteche e una tre quarti di birra ad un calice di prosecco. Tutt'altra cosa rispetto allo stereotipo gay.

Non conosco lo zelante funzionario che gli ha ritirato la patente di guida per consegnargli quella di finocchio: non so se l'ha fatto mentre un piccolo brivido sadico gli percorreva la schiena oppure con l'indifferenza burocratica di chi sbriga una qualunque pratica.

E non conosco la madre di Cristian: non so se quando è arrivata a casa la notifica dell'inabilità a guidare del figlio omosessuale ha detto "figlio mio, che ingiustizia!" oppure "figlio mio, che vergogna!".

Martedì, per la prima volta nelle officine Cantelmo di Lecce ci sarà un'iniziativa dell'Agedo, l'associazione dei genitori degli omosessuali; e per la prima volta in una città che si racconta aperta e tollerante ma nella quale non esiste da anni un circolo arcigay le "velate" non sono l'eccezione ma la regola, si parlerà di orgoglio e pregiudizio, difficoltà outing e soprattutto di vergogna. La vergogna dei gay a dichiararsi, delle loro famiglie nell'accettarlo.

Anche se forse dovrebbe vergognarsi un po' di più chi ci vorrebbe riportare al medioevo, quando quella "patente" di omosessualità significava il rogo, il fuoco che veniva da fascine alle quali venivano aggiunte spezie per coprire l'odore acre della carne che brucia: semi di cumino per le streghe, semi di finocchio per gli invertiti.

Infine non so cosa pensi il responsabile ultimo del meccanismo che ha tolto la patente a Cristian, il ministro dei trasporti Altero Matteoli. So che proviene da un partito, il Movimento Sociale Italiano, che non ha mai avuto grandi simpatie per i ricchioni. Ma anche che viene da una terra, la Toscana, che è terra di accoglienza e civiltà e che sul turismo gay-friendly ha costruito un'industria i cui numeri non conoscono crisi. Per questo, nel dubbio, ho mandato una mail al suo indirizzo ministeriale (segreteria.matteoli@mit.gov.it): "Gentile ministro, in attesa che venga restituita la patente a Cristian Friscina, la prego di ritirare anche la mia".

Mandategliela anche voi: per scrivergliela non occorre essere gay, basta avere ancora la capacità di indignarsi.

mercoledì 11 maggio 2011

Teppisti cromatici/1: Il minestrone di Nardò


"e allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte 'e manifestazioni e ste fessarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. è importante la bellezza: da quella scende giù tutto il resto" (i 100 passi)



Personalissima rassegna della piccola bottega degli orrori stilistici salentini: colori incongrui, scelte infelici o semplici pugni nell'occhio che gonfiano di pinnacoli moreschi e sciabolate cromatiche il volto di una terra perfetta nella sua semplicità.

Primo teppista: l'edificio in via Anna Magnani a Nardò, favoloso minestrone di colonne razionaliste, guglie neogotiche, mattonelle multicolor, ringhiere metalliche e bugnati post-moderni, tanto da far apparire sobrio perfino il supermercato verde pisello che gli cresce accanto.


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lunedì 9 maggio 2011

La coscienza a posto con i miei nonni

Il 12 e il 13 giugno si voterà per i referendum, anche e soprattutto per quelli sull'acqua pubblica. E che ci sia il (fondato) timore che manchi il quorum, la dice lunghissima sull'aridità politica del nostro paese: ci hanno insegnato che l'acqua è il principio della vita, l'idea che la maggioranza degli italiani ne trovi poco importante il destino, fa di noi dei perfetti candidati all'eutanasia.

Io voterò, e voterò sì. Ma capisco le ragioni di chi voterà no, oppure non voterà affatto puntando sul fallimento del referendum anti-privatizzazione.
E lo capisco ancora meglio, se penso a quanti soldi abbiamo speso per un'opera come quella del Sistema Irrigazione Salento e per la diga del Pappadai, che ne è il cuore. Ne hanno parlato in tanti e lo ha fatto anche l'Indiano di TeleRama oltre un anno fa, il 5 marzo 2010, raccontando (anche grazie alle strepitose immagini di Matteo Brandi) il più grande spreco pugliese e la più grande incompiuta salentina: un'opera enorme iniziata 35 anni fa, costata allo stato 500 miliardi di vecchie lire, nata per liberare i campi dalla siccità e mai entrata in funzione. Di mezzo ci sono una miriade di enti inutili o dannosi, nati per gestire l'acqua pubblica e divenuti una greppia di elettorati privati (basta scorrere l'elenco dei presidenti o dei commissari dei Consorzi di bonifica o dell'Ente irrigazione). Uno spreco che è colpa anche di un'idea "privatistica" dell'acqua annidata in un ente pubblico, cioè della pretesa della Basilicata di aprire o chiudere il rubinetto in base alle convenienze, cioè al prezzo che la Puglia è disposta a pagare.

Ma, alla base del grande buco dell'acqua, c'è soprattutto un metodo che ha soffocato nella culla la buona politica e la buona amministrazione al Sud: spendete e spandete, qualcosa resterà. Colpisce, nelle parole fuori onda dei guardiani della diga nel deserto, il raffronto fra ieri e oggi. Ieri: il mare di denaro, disperso in mille rivoli perché i fondi non andavano persi, a costo di progettare e costruire opere inutili. Oggi: gli stipendi che arrivano col contagocce e il cantiere dell'avanguardia idraulica diventato un rifugio per cani randagi. Solo un paradosso della storia? No: la siccità di oggi è la conseguenza dell'inondazione di ieri.
Ciò nonostante, il 12 o il 13 giugno voterò ai referendum sull'acqua pubblica. E voterò sì perché, nel territorio del più grande acquedotto d'Europa, privatizzazione non fa rima con liberalizzazione: significa solo sostituire un monopolio privato ad un monopolio pubblico. Un esempio di liberalizzazione è quello degli aerei: oggi voliamo a prezzi imparagonabili a quelli di dieci anni fa, e la concorrenza ha reso democratico il mercato. Un esempio di privatizzazione, invece, è quello delle autostrade: ci costano di più per un servizio uguale o peggiore, il monopolio privato è diventato un affare per pochi senza un vantaggio per molti.

E però, se il quorum passa e se il sì vince, la Regione e la parte politica che fanno dell'acqua pubblica una bandiera, devono ripensare anche ai modi con cui l'hanno gestita e devono dare buone ragioni (buone, non ideologiche) per preferire lo status quo al cambiamento.
Perché se votassi no (o non votassi affatto) non mi sentirei con la coscienza a posto davanti a mio nonno, contadino di Ruffano per il quale "l'acquedottu" e "lu consorziu" sono stati la liberazione dalla schiavitù del pozzo e della siccità. E però vorrei sentirmi con la coscienza a posto anche con l'altro mio nonno, capomastro di Casarano, che ha sempre pagato le tasse bestemmiando anche contro "l'acquedottu" e "lu consorziu", enti che negli anni hanno dato poco da bere e molto da mangiare.