lunedì 16 maggio 2011

Alle comunali un cavallo di "razza"


Le elezioni, si sa, sono tutte uguali. In queste ore vedremo, ascolteremo, leggeremo politici e sondaggisti, opinion leader e politologi spiegare come e perché le grandi coalizioni hanno perso o vinto le amministrative di primavera. Mentre scrivo, il risultato non è ancora delineato: ma se vincerà il centrosinistra, statene certi, Bersani dirà che un governo distratto rispetto alla crisi è ormai alla frutta; se vincerà il centrodestra, Berlusconi dirà che l’eversione giudiziaria non ha incrinato il suo rapporto con la gente. Se si affermerà il terzo polo, Casini dirà che l’Italia è stanca di tutti e due.

Non credetegli.

A decidere i nuovi sindaci non sono né il programma, né i personaggi o i fatti nazionali. Il voto di opinione frutta nelle urne amministrative solo in alcuni grandi centri, ma nel Salento sono andati al voto 36 municipi, che contano oltre 200mila abitanti: come dire una media di 6mila cittadini (e 4mila votanti) per comune . Come si vince o si perde a Patù o a Laterza, a Oria o a Lizzanello, a Cisternino o Avetrana? Un po' per il candidato sindaco: candidati loffi o big col ghiribizzo della fascia tricolore pesano nelle urne, ma neanche troppo (vedi Nardò o Trepuzzi). Un po’ di più conta l’ampiezza della coalizione, perché la grande ammucchiata premia sempre. Ma soprattutto a pesare sono le liste dei candidati consiglieri e come sono state compilate. E qui contano altri criteri pre-politici, una magia bianca di carattere tribale della quale sciamani sono personaggi oscuri ma indispensabili: i compilatori.

Ogni sezione di paese che si rispetti ne aveva uno: appena infarinato nella politica ma ben fritto nell’amministrazione, la sua dote principale è una conoscenza enciclopedica di parentele, comparanze, confraternite, amicizie e quant’altro fa “legame” in una comunità. Perché fa fico avere in lista l’avvocato prestigioso o l’avviato architetto ma non è detto che il cliente, oltre a pagargli la parcella voglia anche dargli il voto.

E allora meglio un candidato con la razza longa, cioè con un ben ramificato albero genealogico che gli permetta di pescare preferenze di zie zitelle, nipoti al primo voto, cugini da sistemare e nonne ben inserite in parrocchia. Diciamoci la verità: la politica è una bella cosa, ma la mamma è sempre la mamma. E infatti, dove non arriva la razza può soccorrere la strazza, ovvero la famiglia della madre: non è il cognome che fa il sangue.

Detto così, sembra facile: basterebbe l’albero genealogico alla mano e la lista è fatta. Ma il compilatore è più bravo di così: nel suo schedario mentale ha anche annotato scrupolosamente i pettegolezzi di paese e le inimicizie che, si sa, possono nascere anche nelle migliori famiglie. “Ma quiddhu sta scannatu cu li frati” è un argomento schiacciante per far cadere una candidatura al momento decisivo: la razza non basta averla, occorre batterla.

Servono poi quelle parentele acquisite coi sacramenti che ti permettono di entrare in case lontane e, tra un battesimo e una cresima, infilare un santino ben più profano nelle mani di sciuscetti e cumpari. O, al limite, essere ben inserito in una confraternita, dall’immancabile circolo degli amici all’onesta associazione degli emigranti fino – ovviamente – alla dirigenza della scuola calcio. Senza dimenticare che una lista non è degna di essere chiamata tale se non ha candidati di ogni quartiere e di ogni frazione o marina sperduta.

Ma nella guerra delle liste c’è posto anche per la magia nera, in agguato c’è lo spauracchio di ogni candidato: la razza spaccata, il più temibile sortilegio del compilatore di lista avversario. Ovvero, un candidato appartenente allo stesso nucleo familiare del concorrente temibile per radicamento sociale o estensione genealogica. “Ma ieu tinìa a razza spaccata”, statene certi, sarà una giustificazione ricorrente del candidato iperpompato alla vigilia ma dal risultato deludente al momento dello scrutinio.

Altro che Br e monnezza, Fiat e primarie: in provincia i primi cittadini vengono eletti così, grazie ai compilatori di lista che azzeccano più tredici nel complicato sistemone genealogico della comunità. Una dote innata e che assomiglia a quella dei rabdomanti, che permette di trovare l’acqua del consenso reale sotto la terra del doveroso affetto familiare. Perché attenzione: anche la razza longa, i buoni rapporti, i mille legami alla fin fine non sono garanzia di successo. Lo insegna la fulminante battuta di Beppe Grillo (la foto di Paride De Carlo lo ritrae nel suo comizio di Nardò), quando di politica satireggiava e ancora non la faceva: "Emilio Fede quando si è presentato alle elezioni per il Psdi ha preso 5 voti. In famiglia sono sei: sta ancora cercando il franco tiratore"