lunedì 6 giugno 2011

L'università, una grande famiglia


C'è un virus strisciante che infetta l'università italiana. E dal quale non è immune l'Università del Salento: si chiama parentopoli. Uno scandalo sordo, perché se qualunque sperduto municipio diventasse il nido di covate di figli e nipoti come accade negli atenei, il giorno dopo l'opposizione al sindaco farebbe fuoco e fiamme, gli esposti in procura fiorirebbero come i ciliegi in primavera e non si conterebbero i blitz di finanza, carabinieri e polizia. Strisciante, quel virus in università, perché nell'amministrazione universitaria non c'è opposizione, sulle scelte interne ad un'istituzione decisiva per il paese non c'è dibattito pubblico e la gestione è (giustamente) consociativa.

Le obiezioni sono note: chi è un bravo professionista non va penalizzato solo perché figlio di un altro bravo professionista; chi assume un ruolo in ateneo lo fa tramite di un concorso pubblico e a un esame dei titoli e delle pubblicazioni; l'università non è diversa dalla società, nella quale studi professionali e imprese private passano di padre in figlio in virtù di un legame di sangue, non di un primato conquistato sul campo.

Facile sarebbe smontare quelle obiezioni: di bravi professionisti ce ne sono tanti, tantissimi, strano che la rosa si restringa improvvisamente quando si tratta di concorsi universitari; studi professionali e aziende private sono sul mercato e pagano le scelte infelici (leggi: il parente incompetente) perdendo clienti e fatturato; in università non accade la stessa cosa e le scelte infelici si fanno a spese altrui (leggi: contribuenti e studenti). Ma soprattutto, chiunque conosca le dinamiche universitarie sa che quei concorsi universitari sono solo formalmente aperti a qualsiasi risultato: in realtà sono cooptazioni di un ricercatore da parte di un gruppo scientifico o di un singolo docente. Prima si individua il vincitore, poi gli si cuciono addosso criteri su misura.

Ma smontare quelle obiezioni è ancora più facile di così. Basta che ciascuno di noi frughi nella sua memoria e si chieda quante straordinarie teste sono volate via dal Salento impoverendoci tutti. Io l'ho fatto e di cervelli straordinari e di facce che li nascondevano me ne sono venuti in mente a pacchi. Cito solo tre storie, diversissime tra loro.

Giorgio, 36 anni, rampollo del più importante istituto di credito salentino (e non solo). Aveva l'impero locale su un piatto d'argento, ha preferito rischiare in proprio e dopo la laurea in Bocconi ha voluto perfezionarsi a Princeton e infine rimanere negli Stati Uniti per insegnare nella Northwestern University di Chicago.

Andrea, 32 anni, figlio di un dipendente delle Ferrovie dello Stato. Lui, sul piatto d'argento aveva solo i biglietti gratuiti del treno; gli sono serviti: ha scelto di studiare in un'università cattolica del nord Italia non per intima vocazione ma per una congrua borsa di studio. Oggi è uno dei pochi italiani che lavorano a Bruxelles per la Commissione Europea.

Antonio, 22 anni, figlio di un ex consigliere regionale. È più giovane degli altri due, ma promette bene: non solo come blogger (i suoi bellissimi post potete leggerli qui) ma anche come politico. Ha iniziato a far palestra nel luogo in cui si alleva la classe dirigente italiana, i cui giovani virgulti l'hanno stravotato come rappresentante studentesco nel cda della Bocconi, retto da Mario Monti.

Ogni exploit personale di questi ragazzi, lontano dalla terra in cui sono nati, è un successo per loro e un fallimento per noi. Intendiamoci: svuotarsi della retorica del Salento d'amare per riempirsi delle idee che circolano nel mondo fa solo bene. Ma ogni testa che non torna a casa piena di queste idee si traduce in una nazione e in un provincia un po' più asfittiche e un po' più ripiegate su sé stesse. Così torniamo a quel virus che infetta l'università italiana e anche quella del Salento. Qualche conto, qualche nome e qualche albero genealogico provò a farlo l'Indiano due anni e mezzo fa, quando il programma di TeleRama era ancora acerbo ma già si divertiva a sfrucugliare nelle magagne del Salento.



Dopo la pubblicazione on line di questo pezzo risalente al dicembre 2008, la professoressa Cecilia Santoro (citata per il marito e i figli che lavoravano in ateneo) ha aggiornato le informazioni. E ha implicitamente allungato la lista delle storie con quella di Daniele, 35 anni, suo figlio. Sei anni di ricerca precaria nella facoltà salentina di Ingegneria e una prospettiva da un lungo, lunghissimo percorso da travet universitario. Meglio far la valigia e portare il suo cervello al servizio del Barcelona Supercomputing Center.

Che c'entrano tutte queste storie con il virus che infetta l'università italiana e anche quella del Salento? C'entrano.
Perché a quell'ateneo questo territorio ha affidato una funzione: quella di selezionare la classe dirigente e arricchire di cervelli e idee la ricerca, l'economia, le professioni, la cultura.
E ogni parente incompetente - o semplicemente meno bravo - che viene assunto in università toglie il posto a qualcuno che troverà di meglio altrove, lontano dal Salento e dall'Italia.
Per fortuna sua. E per sfortuna nostra.